Omelia del vescovo Daniele per il funerale di don Fabrizio Crotti

Pubblichiamo l’omelia pronunciata da monsignor Daniele Gianotti durante il funerale di don Fabrizio Crotti mercoledì 1° agosto in Cattedrale a Reggio Emilia (tratto da La Libertà)

L’incontro con Dio e con il mistero del suo regno si lascia dire nell’immagine della grande gioia di chi ha trovato un tesoro nel campo, e per farlo suo non ha esitato a rinunciare a tutti i suoi averi; e anche nell’immagine della perla preziosa, per la quale si può rinunciare, come il mercante avveduto, a tutto il resto. Ma Dio per l’uomo non è solo il tesoro inestimabile, la perla di grande valore. Il profeta Geremia ha il coraggio di dire a Dio, come abbiamo sentito: «Tu sei diventato per me un torrente infìdo, dalle acque incostanti» (Ger 15, 18).

Chi è dunque Dio, per il profeta, per il credente, o per un prete come don Fabrizio? Il tesoro, la perla, la ricchezza inestimabile e incomparabile, alla quale si può decidere di dedicare tutta la propria vita, o Qualcuno che può sembrare inaffidabile, pericoloso, come quei wadi del deserto dove vai a cercare acqua e trovi tutto secco, ma che in altri momenti si trasformano in un torrente impetuoso, che spazza via tutto?

Immagino che don Fabrizio, nella sua vita di credente che ci sembra forse conclusa troppo prematuramente, e negli oltre quarant’anni del suo ministero di prete, abbia provato l’una e l’altra cosa. Per quanto ha vissuto e sperimentato nelle diverse situazioni del suo ministero, e anche per lo spazio che ha potuto dedicare allo studio, alla riflessione, alla predicazione e all’insegnamento, aveva compreso, credo, che il mistero di Dio non si lascia rinchiudere in una formula facile, e neppure in una sola immagine, per quanto significativa. E penso che anche le difficoltà di salute, che lo hanno accompagnato piuttosto a lungo nella sua vita, fino alla malattia che due giorni fa ha chiuso il tempo del suo pellegrinaggio terreno, lo abbiano aiutato a entrare sempre più profondamente nel mistero di Dio, al quale si è donato nella fede e nel ministero sacerdotale, e che ora gli si dischiude – ne abbiamo piena fiducia – in tutta la sua pienezza.

Al profeta Geremia, che osa dire a Dio quel che abbiamo sentito, perché vive un momento di grande travaglio nella sua missione, Dio risponde senza troppi sconti: rinnova l’arduo impegno della sua vocazione, ma gli consegna anche questa certezza: «Io sarò con te per salvarti e per liberarti» (v. 20). Come capiranno sempre meglio i credenti in Cristo, si tratta di una certezza che è resa possibile dal dono dello Spirito, ma che matura anche attraverso il discernimento: «Se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca» (v. 19).

Questa frase ci consegna una bella chiave di lettura anche per questo nostro ultimo saluto che, nella fede e nella speranza cristiana, diamo a don Fabrizio. Mi sembra che, con il passare degli anni, egli avesse affinato proprio questa capacità di «distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile». Lo si vedeva, a un livello che può sembrare superficiale, per il fatto che aveva «gusto», don Fabrizio: sapeva scegliere le cose, che si trattasse ad esempio di mettere a tavola degli ospiti, o di curare la bellezza e la proprietà della chiesa e degli altri spazi della comunità parrocchiale. Ma la cosa andava molto più in profondità, e penso proprio che questa capacità di distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile gli avesse permesso di scoprire sempre meglio, in Gesù Cristo e nel suo vangelo, il grande tesoro e la perla preziosa, senza accontentarsi di contraffazioni o di imitazioni.

Tralasciando tanti aspetti della sua vita di prete, che meglio di me potrebbero illustrare soprattutto quelli che l’hanno conosciuto nei suoi vari campi di ministero – dalle parrocchie alla Caritas, dall’Ufficio catechistico agli insegnanti di religione, dalla Curia agli studenti dell’Istituto di scienze religiose… – vorrei ricordare, tra le cose particolarmente «preziose», che don Fabrizio aveva saputo scegliere e custodire, il suo forte senso di ospitalità e di amicizia.

Lo posso dire personalmente, per l’amicizia che in modi diversi abbiamo vissuto, nonostante la differenza d’età, e che risale a quando conobbi don Fabrizio, cinquant’anni fa, quando lui incominciava gli studi di teologia e io ero un ragazzino al primo anno di seminario. Come me e più di me, senz’altro, lo possono dire tanti altri, che hanno sperimentato nell’amicizia che egli offriva e cercava un segno, un sacramento, quasi, dell’amicizia con il Signore che è il cuore della nostra vita di credenti.

E i tanti con i quali egli amava condividere la tavola, spesso cucinando personalmente ciò che poi aveva la gioia di offrire agli ospiti, hanno sperimentato intorno alla mensa, forse senza neppure accorgersene, l’anticipazione di quella comunione di vita per sempre e di speranza piena di immortalità, che ora chiediamo a Dio per don Fabrizio: quella comunione che volentieri la Scrittura preannuncia proprio attraverso l’immagine del banchetto, della tavola imbandita, che Dio prepara per i suoi, e intorno alla quale ci sarà dato di assaporare il pieno compimento dell’amicizia e della fraternità in Cristo.

Nella fede noi abbiamo la convinzione che lo stesso Signore Gesù Cristo, nel quale egli ha creduto e al quale si è donato nel ministero presbiterale, fa entrare ora don Fabrizio nella sala del banchetto, lo accoglie alla sua mensa, si stringe le vesti ai fianchi, lo fa mettere a tavola e passa a servirlo (cf. Lc 12, 37).

+ Daniele Gianotti