Oltre il confine. Un luogo di accoglienza tra Libano e Israele

Un muro di recinzione al confine tra il Libano meridionale e Israele

Un muro di recinzione al confine tra il Libano meridionale e Israele

Luoghi di una bellezza stucchevole, dove il tempo è sospeso da tempo. Queste valli e queste colline nascondono le ferite ancora sanguinanti della guerra. Laggiù, in fondo alla valle, nel 2006 furono rapiti da Hezbollah due soldati israeliani di pattuglia: fu l’inizio di una guerra durata meno delle precedenti, ma cruenta e devastante.

Lassù, invece, domina un forte su cui svetta la bandiera con la stella di Davide. Qui nel villaggio di Ramia, libanesi e israeliani sono praticamente a contatto, appena poche centinaia di metri separano i due campi. Libanesi, cioè innanzitutto gli Hezbollah, libanesi acerrimi nemici degli israeliani. Si vive come avvolti in un’atmosfera sospesa, le postazioni nascoste di Hezbollah e quelle più visibili degli israeliani conferiscono alla vita locale un carattere di precarietà, se non di paura, che prende allo sterno e non ti lascia più. Sì, ogni due minuti di vede passare una pattuglia dell’Unifil, la forza di interposizione dell’Onu che ha permesso la fine della guerra del 2006 e l’inizio di un processo di status quo, ma la sospensione non cessa.

Gli italiani, va detto, hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evitare una carneficina: all’epoca l’intuizione di pace fu realizzata dal governo Prodi, ma ancora oggi i nostri connazionali sono amatissimi dalla popolazione e rispettati dai combattenti delle due parti, anche perché qui l’Onu sostiene la gente con efficaci attività solidaristiche ed economiche. Se ci sono gli Hezbollah sciiti, non mancano i cristiani, come testimonia sulla collina alle spalle dell’eremo nel quale ci troviamo ora, una grande statua di San Giuseppe. O, appena un po’ più lontano, un’enorme statua della Vergine, issata su un piedistallo dalle forme originali, se non kitsch, ad Ain Ebel, villaggio interamente cristiano. L’incantevole regione era parte della Galilea al tempo di Gesù, ed è proprio qui che suor Béatrice Mauger, originaria della regione di Lione in Francia, ha deciso di trasferirsi con un progetto folle, e a suo modo profetico: lavorare nientemeno che alla riconciliazione tra i figli di Abramo. Dopo un’esperienza decennale come religiosa in un paio di congregazioni di vita consacrata, nel 2009 avvertì il richiamo delle terre di Gesù, e divenne cooperante con la Délegation catholique pour la coopération nella regione.

Suor Mauger davanti allo chalet per la preghiera

Suor Mauger davanti allo chalet per la preghiera

Lavorava al sostegno della comunità cristiana del villaggio di Qaouzah, contadini che non avevano voluto andarsene nel 2006 e che volevano continuare a coltivare una terra dura, che dà olive, tabacco, timo e qualche ortaggio. Fondò una cooperativa agricola, riadattò una casa con lo scopo di creare un centro giovanile, si diede da fare. Fu in quell’epoca che ritornò nel suo cuore la chiamata a seguire Gesù in forma consacrata, con lo scopo preciso di pregare per la pace e la riconciliazione. Non era stata estranea alla decisione la frequentazione per alcuni anni della maggioranza musulmana nella regione, andando oltre le differenze religiose, nella semplicità della vita quotidiana che era precaria per tutti. «Ho cercato di capire perché Qaouzah era finito nel mio itinerario di vita – mi spiega suor Béatrice –, un buco nel mondo, un luogo dove non c’è prospettiva né speranza, dove le armi hanno troppo spesso dettato la loro legge.

Ebbene, poco alla volta ho capito che Dio mi chiamava qui a una vita di preghiera e di fraternità, senza cercare di voler fare grandi cose, ma solo di testimoniare che le religioni di Abramo sono “condannate” a vivere assieme, e possono farlo o nella guerra o nella pace. Io ho scelto la pace, perché Dio l’ha scelta per questo luogo e per tutta la Terra Santa». Sulla sua strada di discernimento, ha avuto una grande importanza monsignor Nabil Hage, vescovo maronita di Sour, cioè di Tiro. Lo incontro nel suo arcivescovado povero e dignitoso, appena a ridosso del porticciolo dove convivono barche da diporto e pescherecci, mentre le rovine romane, un mare di marmo, sono ad un tiro di schioppo. Monsignor Hage dà così la sua testimonianza: «Ho avvertito sin dal primo incontro con suor Béatrice una certa affinità di vedute, per via della vocazione di entrambi alla pace». Non a caso, nel 1970, in occasione della sua ordinazione sacerdotale, il seminarista Nabil che mons. Hage era all’epoca, aveva scritto nell’invito alla cerimonia: «Prete per la pace in Medio Oriente». Così diede subito il suo sostegno al progetto della religiosa francese di costruire un luogo «dove accogliere – come mi spiega ancora suor Béatrice – per un periodo di raccoglimento e di preghiera tutti coloro che ricercano la pace e desiderano pregare per la riconciliazione e il perdono».

Nel cantiere dove si sta costruendo una “arca della pace”, osserviamo nella sera tiepida, attraverso una breccia nel muro dove verrà inserita una vetrata, il luogo del rapimento dei due soldati israeliani: «Quando questa costruzione sarà terminata – mi spiega ancora – qui esisterà un luogo discreto, piccolo, solido, in cui si dimostrerà che le armi possono pure gridare, ma il silenzio dei cuori può portare alla pace e alla riconciliazione». La Provvidenza è intervenuta a più riprese per permettere l’avanzamento dei lavori, «a testimonianza di un progetto che sembra essere ispirato dallo Spirito Santo e non solo dalla volontà di una persona modesta come la sottoscritta».

Passiamo poi a dissetarci dinanzi a uno dei tre chalet in legno – piccoli ma perfettamente autonomi – nei quali suor Béatrice riceve coloro che desiderano unirsi a lei nella preghiera per la pace. Beviamo una bibita fatta con bacche locali, con noi c’è pure una giovane donna sciita dei dintorni, Mariam: «Qui vengono spesso delle donne musulmane per conversare con me e condividere le loro preoccupazioni », mi spiega la religiosa. Al momento del congedo, ecco la sorpresa di un enorme figura che si protende al di là di una recinzione, con un atteggiamento non proprio conciliante: suor Béatrice sulla collina di san Giuseppe a Qaouzah ha raccolto una gran quantità di animali, tra cui un cammello che ora pretende attenzione: ‘Sono convinta che gli animali nel nostro Atelier della Porta Noè che dà avvio al “circuito della pace” che ho tracciato sulla collina, uno strumentospecchio per aiutare ogni uomo a nominare e addomesticare tutte le energie della sua giungla interiore. Energie che i padri del deserto, alla ricerca appunto di pace, chiamavano passioni, hésychia in greco o sakina in arabo».

avvenire