Obiettivo del sinodo per l’Amazzonia. Rilanciare una Chiesa vicina e dialogante

L’Osservatore Romano

(Claudio Hummes) Pubblichiamo un brano tratto dal libro «Il Sinodo per l’Amazzonia» (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2019, pagine 158, euro 12) del cardinale presidente della Rete Ecclesiale Panamazzonica (Repam).
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Proprio come i due discepoli di Emmaus, tristi e delusi per la morte del maestro sulla croce, o come Pietro e i suoi compagni di pesca, fermi sulla spiaggia, scoraggiati per non aver pescato nulla per tutta la notte, anche la Chiesa, a volte, resta impigliata in questo stato d’animo, quando si trova di fronte a situazioni che sembrano sempre andare di male in peggio, o per la sterilità delle proprie fatiche pastorali.
Papa Francesco ha parlato di questa difficoltà durante l’incontro con i vescovi brasiliani in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, a Rio de Janeiro, nel 2013: «Oggi è più che mai urgente domandarci: che cosa Dio vuole che noi facciamo? A questa domanda, vorrei cercare di dare una traccia di risposta. Prima di tutto, non dobbiamo cedere alla paura (…). Non dobbiamo cedere alla delusione, allo scoraggiamento, non lasciamoci andare alle lamentele. Noi abbiamo lavorato sodo, eppure, a volte, ci sembra di aver fallito. Si impadronisce di noi il sentimento di colui che deve fare il bilancio di una stagione fallimentare, guardando quelli che ci abbandonano o che non ci ritengono più credibili, né rilevanti».
Il sinodo dovrà diventare un momento forte per riaccendere le speranze frustrate e per superare i sentimenti di impotenza. Avrà il compito di riaccendere la passione missionaria, rinnovare la certezza e la gioia della chiamata di Dio alla missione.
Di fronte all’allontanamento di tanti cristiani o alla loro migrazione verso altre confessioni religiose, il Papa, nel discorso appena citato, continua dicendo: «Forse la Chiesa, per loro, sembra troppo fragile; forse, troppo distante dai loro bisogni; forse, troppo fredda; forse, troppo autoreferenziale; forse, troppo prigioniera del suo stesso linguaggio rigido (…). Una cosa è certa: oggigiorno ci sono molti che assomigliano ai discepoli di Emmaus. E non sono soltanto quelli che cercano risposte nei nuovi e sempre più diffusi gruppi religiosi, ma mi riferisco a quelli che sembrano vivere senza Dio, come atei teorici, o semplicemente come atei pratici».
Anche la Chiesa in Amazzonia si trova di fronte a una situazione del genere. Molti cattolici di lunga tradizione migrano verso le cosiddette Chiese (Neo)pentecostali, o prendono le distanze da qualunque Chiesa. Ciò accade nelle città, ma anche nelle comunità indigene. Sembra che il raccolto di secoli di missione si stia perdendo. Dice il Papa: «Ciò che manca è una Chiesa che non abbia paura di entrare nel buio della loro notte. Abbiamo bisogno di una Chiesa capace di incontrare queste persone nel loro stesso cammino. Abbiamo bisogno di una Chiesa capace di entrare nei loro discorsi. Abbiamo bisogno di una Chiesa che sappia dialogare con quei discepoli che, fuggendo da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con la sola compagnia della propria delusione». Poco dopo, aggiunge: «Io vorrei che oggi tutti noi ci chiedessimo: siamo ancora una Chiesa capace di scaldare il cuore? Una Chiesa capace di ricondurre a Gerusalemme? Capace di riaccompagnare di nuovo verso casa?».
Sempre durante il medesimo discorso ai vescovi brasiliani, Papa Francesco dà un rilievo speciale alla Chiesa dell’Amazzonia. Il Papa ritiene che l’Amazzonia costituisca un banco di prova decisivo per la Chiesa. In Amazzonia, la Chiesa deve essere perseverante e audace al tempo stesso. Anche in questa regione il raccolto di secoli di lavoro può andare perduto, se non si ci sarà una conversione missionaria e pastorale. Anche là, dice il Papa, la Chiesa ha bisogno di un forte rilancio: «Vorrei aggiungere che (in Amazzonia) l’opera della Chiesa ha bisogno di essere rilanciata». Non c’è più tempo da perdere. È urgente farlo. Questa preoccupazione e sollecitudine sono all’origine della decisione che il Papa ha preso di convocare un sinodo speciale per l’Amazzonia. La situazione dei popoli indigeni avrà la massima priorità, ma il sinodo riguarda tutto il corpo ecclesiale locale, con la totalità della sua popolazione.
Dunque, l’obiettivo del sinodo è “rilanciare la Chiesa”, una Chiesa missionaria, profetica, misericordiosa, povera e per i poveri, una Chiesa vicina e dialogante, che, inoltre, si prende cura della casa comune. Gli indigeni chiedono a gran voce una Chiesa anche fisicamente più vicina. Vogliono una Chiesa che prende decisamente l’impegno di avviare un processo di conversione missionaria e pastorale, incarnata e inculturata nelle culture della regione, quindi interculturale, dato che nel territorio convivono molte culture diverse. Si apre in questo modo per il sinodo un orizzonte molto vasto: vasto, ma non generico né privo di un orientamento preciso. Anzi, il Papa insiste che non si deve perdere la mira. I bersagli di questa mira sono innanzitutto “i nuovi cammini”, “i popoli indigeni”” e “l’ecologia integrale”.
All’inizio del nuovo millennio, il Papa di allora, Giovanni Paolo II, esortò la Chiesa a non scoraggiarsi e a non intiepidirsi. Voleva dare un nuovo slancio alla Chiesa. Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, del 2001, il Papa inizia con queste parole: «All’inizio del nuovo millennio, mentre si chiude il Grande Giubileo in cui abbiamo celebrato i duemila anni della nascita di Gesù e un nuovo tratto di cammino si apre per la Chiesa, riecheggiano nel nostro cuore le parole con cui un giorno Gesù, dopo aver parlato alle folle dalla barca di Simone, invitò l’Apostolo a “prendere il largo” per pescare: Duc in altum! (Luca, 5, 4). Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo, e gettarono le reti. “Così fecero e presero una gran quantità di pesce” (Luca, 5, 6). Duc in altum! Queste parole risuonano oggi per noi, invitandoci a ricordare con gratitudine il passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro» (n. 1).
L’Osservatore Romano, 1°-2 agosto 2019