NOTA POLITICA È sempre il Paese a pagare il conto

Un problema cessa di essere un problema come tutti gli altri quando comincia ad apparire contemporaneamente in molte forme e in posti diversi. A guardar bene, il tentativo che Renzi a volte pare perseguire (mantenere unificati in un solo ruolo leadership di partito e candidatura alla guida del governo) e che tutto il resto dei capicorrente del Pd ostacola con un misto di rabbia e terrore, non è altro che lo stesso problema che si sta manifestando e imponendo anche in altre sedi politiche.

Da quello che trapela, poco (pessimo segno!), molti dei “saggi” scelti da Letta si stanno opponendo con tutte le forze e con tutti i mezzi al mantenimento di quell’assetto bipolare e maggioritario che dalla fine degli anni ’80 gli italiani hanno chiesto in tutti i modi. E che si basa innanzitutto sulla possibilità di scegliere il capo del governo con il voto popolare e di dotare lui di quello che serve per governare effettivamente, e l’opposizione della capacità di controllarlo ma non di intralciarlo.

Al contrario, molti saggi danno prova di un pernicioso connubio di fantasia e conservatorismo e cercano in ogni modo di risuscitare la proporzionale e di ridurre il più possibile il potere del voto popolare. Infine, ma si potrebbe continuare, dalle parti del Pdl si è alle prese con l’incomponibile dilemma di un Berlusconi che è l’unico ancora capace di prendere (sempre meno) voti, ma che non è spendibile come candidato per la guida del governo. Al di là delle circostanze e delle apparenze non si tratta di tre problemi diversi. Un problema in cui si cela molta parte del dramma (e dei costi) della crisi della politica italiana e del Paese che essa opprime.

In democrazia alla politica sono chiesti due mestieri. La politica deve raccogliere il consenso e prendere decisioni. Si tratta di due mestieri che mal si conciliano. Raccogliere consenso è unire, prendere decisioni è separare. Come combinare questi due mestieri? Effettivamente richiedono strumenti diversi.

Non a caso a volte vengono svolti persino da due tipi di organizzazioni e due ceti politici completamente diversi: chi governa e chi porta i voti, “il capo” e “i capetti”. La diversità dei due mestieri, dividere e unire, genera inevitabilmente tensioni e conflitti. Il capo sopravvive se governa; i capetti sopravvivono se fanno pesare gli interessi che rappresentano più di quanto non abbiano già pesato nelle urne. Il capocerca di andare dritto, i capetti cercano di metterglisi di traverso.

Se il capo prescinde dai capetti si ritrova da solo e non governa per molto; se i capetti s’impongono sul capo, semplicemente non si prendono decisioni o non se ne prendono di reali. Più capo e capetti sono autonomi, più alzano il costo della politica. A costare tanto sono soprattutto questi ultimi che sono tanti, hanno più “bocche da sfamare”.

E allora, che fare dell’inconciliabilità di questi due mestieri? Le democrazie più avanzate hanno risolto il problema nello stesso modo (attraverso soluzioni diverse, ma sotto questo profilo piuttosto equivalenti).Acompetere per la guida del governo dev’essere il capo del partito e quando questi ha vinto egli dispone delle risorse istituzionali per evitare che i capetti cambino le carte in tavola e sovvertano l’esito delle elezioni. Il cancelliere tedesco, il premier britannico, il presidente della repubblica statunitense o francese, il capo del governo spagnolo, e si potrebbe continuare, sono messi in condizione di controllare governo e partito.

E così tutti i tipi di costi della politica cominciano velocemente a scendere. I costi della politica italiana non nascono da quanto decide il capo del governo, pochissimo, ma da quanto paghiamo ai capetti di “destra” e di “sinistra” perché possano continuare a esistere pur rappresentando pochissimo (e quando sono capetti di “centro” costano anche di più, perché giocano su due tavoli!). Ci dice nulla il fatto che, dopo quasi 70 anni, ricordiamo Alcide De Gasperi come il più grande governante dell’Italia repubblicana, De Gasperi che fu premier e leader di partito?

Se Renzi si imponesse come leader di partito e come candidato premier, e poi magari vincesse le elezioni, cosa resterebbe da fare ai capetti del Pd? I capetti, di qualsiasi partito, preferiscono contare poco in un partito che ha perso (o pareggiato), piuttosto che nulla in un partito che ha vinto.

Chi ha detto che i capetti sono interessati alla vittoria dei propri partiti? Perché mai i “saggi”, o tanti di loro, non danno la priorità alla questione della forma di governo? E ancora, dove può mai andare il centro destra italiano se non scioglie lui, prima degli elettori o dei giudici, il nodo Berlusconi? Mentre aspettiamo come andrà a finire, può essere utile fare attenzione alla strategia comunicativa dei capetti (e dei loro saggi).

Con il conforto ineffabile di “alte cariche dello Stato” cercano di abbindolare l’opinione pubblica chiedendo priorità per la riforma della legge elettorale. Chiunque si chiederebbe: come si fa a cambiare la legge elettorale senza aver deciso come cambiare la forma di governo? Appunto! Vogliono cambiare la legge elettorale subito per conservare la vecchia forma di governo, l’unica che garantisce un ruolo ai capetti.

Se ci riescono, cambiata la legge elettorale la spinta al voto sarà irrefrenabile e, se questo costerà la rinuncia alle riforme costituzionali e a quelle economiche, sarà ancora una volta il Paese a pagare il conto. Non loro. Sempre che il Paese abbia ancora la voglia e le risorse per pagare.

Luca Diotallevi

vita pastorale n.8 2013