Non si fa «manovra» senza guardare dove si va

FRANCESCO RICCARDI

I condoni edilizi e fiscali, l’allungamento dei 40 anni di contribuzione previdenziale e la riduzione delle tredicesime per le forze dell’ordine. Iniziative durate l’espace d’un matin – il tempo di presentare un emendamento, suscitare proteste, per poi dover ripiegare con repentini dietrofront – ma che testimoniano di uno stato confusionale all’interno del governo e della maggioranza. E più ancora confermano l’impressione che questa manovra sconti un errore d’impostazione metodologica. Certo, nulla di nuovo: la storia delle Finanziarie nel nostro Paese è costellata di ripensamenti, aggiunte, fughe in avanti e marce indietro. Memorabili gli ‘assalti alla diligenza’ degli anni 80 e 90 e le più recenti leggi- monstre con maxi-emendamenti di un solo articolo e centinaia di commi. La recente riforma degli strumenti di finanza pubblica, pur sbandierata come risolutiva, non sembra però aver prodotto una ‘normalizzazione’ dei processi decisionali. Per un motivo principalmente: nessun miglioramento tecnico è in grado di sostituire la necessaria costruzione del consenso: in Parlamento, all’interno della propria maggioranza, ma soprattutto nel Paese. E il consenso non scaturisce se non dal confronto. Che, in particolare per questa manovra finanziaria, è risultato del tutto inesistente. Prima del varo, infatti, si è svolto un solo incontro ‘informativo’ con i sindacati. Con le Regioni – al centro degli interventi di aggiustamento, tanto da suscitare forti reazioni al di là degli schieramenti di appartenenza – le riunioni sono state un paio. Mentre del tutto ignorate, ad esempio, sono risultate le rappresentanze delle famiglie e quelle delle persone disabili, sulle quali pure si sta operando un’inquietante riforma dei criteri di assistenza. Dare dei «cialtroni», generalizzare in maniera fuorviante sui «falsi invalidi», agire surrettiziamente su materie sensibili come la previdenza e gli stipendi, non favorisce certo l’accettazione della manovra. Quell’aggiustamento dei conti, che pure la maggior parte dei cittadini riconosce, a livello generale, essere necessario e perfino urgente. Non si tratta di rimpiangere il metodo concertativo, che ha dato i suoi migliori risultati vent’anni fa e ha poi mostrato la corda dell’usura, ma applicare davvero quel ‘dialogo sociale’ al quale il governo stesso dichiara di volersi conformare. È contraddittorio sostenere la necessità di una svolta sussidiaria nella Costituzione, formale e materiale del Paese, e poi accentrare le decisioni come sta avvenendo in questi giorni, operare come se i corpi intermedi non esistessero, non avessero ruolo e soprattutto competenze da mettere a disposizione per le riforme: dalle pensioni al pubblico impiego, dalle invalidità al riparto della spesa pubblica. La democrazia rappresentativa trova la sua legittimazione e la propria forza non una volta per tutte al momento dell’espressione del voto, di un mandato a governare. Ma si vivifica nel contatto continuo tra rappresentante e rappresentato, tra i diversi livelli sociali e istituzionali, dal capo dello Stato all’ente locale. Si nutre della pazienza e dell’umiltà dell’ascolto. Il rischio, altrimenti, è quello di cadere in una sorta di solipsismo, nella convinzione di possedere tutte le risposte giuste, di poter far da sé, decidendo magari con un colpo di mano ciò che è «prioritario» e soprattutto ciò che è «giusto». Salvo accorgersi, troppo tardi, che i cittadini sono sintonizzati su tutt’altra lunghezza d’onda, altre le loro necessità e urgenze. E che, insieme, si poteva fare di più e meglio per il Paese.
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