Nelle miniere di cobalto dalla parte degli ultimi

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Osservatore

La Repubblica Democratica del Congo è una miniera a cielo aperto. Detta così potrebbe sembrare un’esagerazione, ma è la semplice verità. Lo scorso anno il giornalista statunitense Michael J. Kavanagh pubblicò sul «New York Times» — per l’esattezza nell’edizione del 26 gennaio 2019 — un aneddoto estremamente illuminante. «Una sera del 2014, un agente di polizia a Kolwezi, una polverosa città mineraria di mezzo milione di persone nella Repubblica Democratica del Congo meridionale, decise che la sua famiglia aveva bisogno di una nuova latrina. Prese una pala e iniziò a scavare una fossa nel suo cortile e presto rimase paralizzato dalla luccicante terra nera che aveva dissotterrato: davanti a lui c’era un mucchio di cobalto, uno dei minerali più ricercati al mondo». Nei giorni successivi alla scoperta, il fortunato poliziotto, iniziò a scavare nel suo soggiorno, nel suo bagno, nella sua camera da letto, nella sua cucina e si accorse che l’intera abitazione poggiava su un vero e proprio tesoro. Sta di fatto che nel giro di poche settimane, anche i suoi vicini di casa lo imitarono con il risultato che in meno di un anno quel quartiere collinare di Kolwezi, conosciuto con il nome di Kasulo, venne letteralmente spazzato via dai cercatori di cobalto. Originariamente era abitato, scrive Kavanagh da famiglie di cuochi e addetti alle pulizie, meccanici e autisti che lavoravano per l’industria mineraria, ma già nel 2015 la desolazione regnava sovrana: le case erano ruderi e le strade crivellate di buche d’ogni genere. Da quelle parti, ormai — non solo a Kasulo — tutti, in un modo o nell’altro si sono ingegnati a trovare fortuna con la ricerca del prezioso minerale.

D’altronde, il cobalto è una delle materie prime fondamentali per la realizzazione delle batterie agli ioni di litio che alimentano le auto elettriche e i dispositivi elettronici di largo consumo, ovvero tutti quegli apparati e gadget di quel «new deal» ecologico che dovrebbe, nelle intenzioni di molti governi tra cui quelli dell’Unione Europea (Ue), stimolare la ripresa economica post-coronavirus un po’ a tutte le latitudini.

L’interesse del mercato estrattivo, legato alla crescente domanda delle aziende che se ne devono approvvigionare, è in gran parte concentrato nell’ex Zaire — da cui proviene il 60-70 per cento della fornitura mondiale — e più precisamente in una regione circoscritta denominata Lualaba (parte dell’ex-Katanga). A Kolwezi, in particolare, il cobalto si trova spesso con vasti depositi di rame e con il boom dell’elettronica in tutto il mondo, la domanda di entrambi i minerali è schizzata alle stelle. Eppure, paradossalmente, nonostante questa ricchezza offerta da Madre Natura sia così evidente, il reddito pro-capite congolese continua ad essere tra i più bassi al mondo. Il motivo è presto detto.

A seguito del grande indebitamento dell’economia nazionale, le grandi istituzioni finanziarie internazionali e non pochi governi hanno imposto la privatizzazione e la liberalizzazione delle commodity (materie prime), tra cui figura naturalmente anche il cobalto. Con il risultato che molte concessioni minerarie sono passate in mani straniere e l’attività estrattiva statale è stata fortemente penalizzata.

Per tentare di evitare che il business del cobalto fosse totalmente monopolizzato dalle multinazionali, le autorità governative di Kinshasa hanno dato la possibilità ai propri connazionali di diventare artigiani minerari, (creseurs), senza però che vi fossero adeguate coperture normative per garantire la tutela della salute e la sicurezza. Questo indirizzo ha fatto sì che si acuisse a dismisura la mobilità interna — soprattutto reduci da conflitti sanguinosi nell’est del paese — tutte persone spinte dal miraggio di ottenere guadagni facili.

Nel frattempo si è creato un modello ibrido, vale a dire le società multinazionali che hanno le concessioni e dunque i diritti di sfruttamento del sottosuolo, fanno investimenti ridottissimi con infrastrutture trascurabili, impiegando formalmente poco personale locale specializzato e sfruttando invece il lavoro di gruppi più o meno organizzati di artigiani minerari, moltissimi dei quali minori.

Tutto questo avviene con l’intermediazione di concessionari, ai prezzi decisi dai gruppi societari stranieri senza che i creseurs abbiano nessun margine di trattativa sui prezzi, né la possibilità di vendere al di fuori della concessione a possibili migliori acquirenti.

Occorre rilevare che il governo congolese ha cercato di arginare questi fenomeni, promulgando nel marzo 2018 un nuovo Codice Minerario, che prevede l’aumento della fiscalità per le imprese minerarie, soprattutto per materie strategiche che subiscono la volatilità dei prezzi sui mercati internazionali delle commodity, imponendo un investimento nel welfare da parte delle aziende (0,3 per cento del volume d’affari). Tale normativa, considerata favorevolmente dalla società civile, è stata però successivamente ridimensionata, dietro pressione dei colossi minerari, dando la possibilità alle multinazionali di negoziare le condizioni delle concessioni “caso per caso”, singolarmente.

Rimane comunque aperto il tema di una riforma redistributiva che includa una specifica regolamentazione del settore minerario artigianale che rappresenta ufficialmente il 20 per cento del mercato, ma nei fatti arriva fino al 40 per cento per il cobalto. In questo difficile contesto, in cui a pagare il costo più alto sono i minori che vengono sfruttati e sottoposti a condizioni lavorative subumane, in questi anni si è particolarmente distinta una Organizzazione non governativa locale, Bon Pasteur, affiliata con la Fondazione Internazionale Buon Pastore onlus, che ha avviato nel 2013 un programma di sviluppo comunitario e protezione sociale. Tale Fondazione è stata invitata a partecipare al Forum su Responsible Minerals dell’Ocse nell’aprile del 2018 per fare il punto sull’applicazione delle linee guida promulgate dalla stessa Ocse per garantire la responsabilità della filiera dei minerali provenienti da zone di conflitto o ad alto rischio ed eliminare le forme di sfruttamento del lavoro minorile.

In base ai dati raccolti dalla Fondazione, anche in tempi recenti, tutti gli indicatori di “alto rischio” legati alla violazione dei diritti umani — ad eccezione di quelli connessi ai conflitti — sono ancora prevalenti nelle comunità minerarie di Kolwezi. Un segnale di grande speranza è rappresentato dalla manifestazione d’interesse» (manifestation d’intérêt) della Fondazione, in qualità di società di consulenza incaricata di fornire supporto sociale (scuola, anagrafica sanitaria, nutrizionale, psicologica e civile) dei minori coinvolti nella filiera del cobalto nelle province di Lualaba e Haut-Katanga, nell’ambito di un lungimirante progetto del governo di Kinshasa, finanziato dall’African Development Bank Group (Afdb). La Fondazione ha d’altronde una credibilità notevole avendo già reintegrato nel sistema scolastico 4.176 minori, garantendo loro la protezione sociale. Inoltre, gode del pieno sostegno dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù (Opbg) che si è reso disponibile a condividere il proprio know-how per una missione pienamente in linea con la Dottrina Sociale della Chiesa.

di Giulio Albanese