Nella Giornata della memoria la storia dell’archivio ritrovato del ghetto di Varsavia. Con il suo desiderio di qualcosa che resti oltre ogni tragedia

Si può celebrare la gioia del sabato nell’inferno? Può esserci spazio per un respiro di divina presenza nell’abisso del male?

Sono domande che interrogano l’uomo dal giorno in cui il mondo ha dovuto fare i conti con Auschwitz, il buco nero dell’umanità.

Eppure, leggendo le cronache del ghetto di Varsavia, si scopre che proprio tra quelle strade, dove la violenza, la brutalità, la morte erano quotidiane, c’era un gruppo che si chiamava Oyneg Shabes, in yiddish “la gioia del sabato”: uomini e donne, laici e religiosi, che volevano resistere alla follia del nazismo usando come unico strumento di difesa la parola. Essi non imbracciarono alcuna arma capace di offendere il corpo, ma la più potente per costruire lo spirito e vincere le tenebre: la parola.

L’Oyneg Shabes fu gruppo di eroi che, durante la prigionia nel ghetto di Varsavia, si ritrovava nel giorno di shabbatcon un unico scopo: salvare la memoria del popolo ebraico. I suoi membri, guidati dallo storico Emanuel Ringelblum, avevano deciso di raccogliere quanto più materiale possibile per testimoniare l’inaudita e terribile situazione in cui centinaia di migliaia di ebrei furono costretti a vivere fino alla liquidazione del ghetto, avvenuta dopo alcune settimane di rivolta nel maggio 1943.

La loro storia è raccontata da Samuel Kassow, nel bel libro Chi scriverà la nostra storia? L’archivio ritrovato del ghetto di Varsavia. Si apprende la vicenda delll’Oyneg Shabes e del suo lavoro per custodire volantini, interviste, tabelle alimentari, tariffari, libri, documenti, spartiti, foto, disegni. Ogni oggetto è un capo d’accusa contro i carnefici.

Ringelblum e i suoi collaboratori compresero che lo sterminio degli ebrei avrebbe significato anche la perdita della loro cultura, e così si adoperarono per salvare quel patrimonio, ritrovandosi a catalogarlo nel giorno in cui, per quello stesso popolo ebraico, protagonista è la Parola: nel giorno dell’ascolto della Parola essi combattevano silenziosamente per salvare la parola della diaspora sofferente.

Se Dio sembrava tacere tra le macerie del ghetto, se il silenzio della Parola interrogava e lacerava, essi rimanevano fedeli alla parola dell’uomo. Così scriveva Gustawa Jarecka:

«Il desiderio di scrivere è forte quanto la ripugnanza per le parole. Odiamo le parole perché troppo spesso sono servite a coprire il vuoto e la meschinità. […] Eppure nel passato la parola ha significato la dignità umana ed è stata il bene più prezioso dell’uomo»

Di fronte alla fine che andava prospettandosi, che fare almeno per proteggere l’archivio dalla distruzione, non potendo più salvare la vita delle persone? Tutto quanto era stato raccolto venne racchiuso in scatole di latta e affidato al grembo della terra, affinchè un giorno potesse rifiorire e narrare ciò che era accaduto:

«Quello che non abbiamo potuto gridare e urlare al mondo l’abbiamo nascosto nella terra… come vorrei assistere al momento in cui il grande tesoro verrà dissepolto e griderà la verità al mondo. Perché il mondo sappia tutto.»

Queste sono le righe che si leggono a conclusione del diario di David Graber, ucciso a 19 anni.

Pochissimi furono i superstiti dell’Oyneg Shabes, e subito si mossero per ritrovare le scatole metalliche seppellite tra le macerie del ghetto. Una parte dell’archivio venne rinvenuta nel 1946, una parte nel 1950 e una parte giace ancora sepolta nella terra di Varsavia, introvata. Essa è come quell’immenso popolo falcidiato nei campi di sterminio, di cui non rimane che una labile traccia.

Oggi, che facciamo memoria della Shoah, è doveroso ricordare quanti si spesero per salvare la storia di un popolo vittima del Male, permettendoci, con il venir meno dei testimoni, di sapere dalla loro voce scritta cosa successe a causa dell’oblio della ragione.

Eppure una memoria è tale non solo se custodisce il passato, ma se è anche capace di parlare al presente e proiettare il suo insegnamento nell’oggi. Purtroppo, storie simili, intrise di sangue, accadono anche ai nostri giorni: uguale è però la risposta dell’uomo quando fa appello alla sua dignità, salvando la parola laddove non si può salvare la vita.

È una storia di queste settimane: a Daraya, un sobborgo di Damasco, sotto le bombe di una guerra che non sembra cessare mai, un gruppo di persone, giovani soprattutto, rischiando la vita, recupera e custodisce i libri di un popolo, scritti in lingue diverse, di religioni e tradizioni differenti:

Perché ancora oggi, di fronte alla morte, qualcuno ha il coraggio di opporre un “no”, tentando di indicare la strada per una civiltà migliore. Per resistere, in piedi, e in piedi morire, come scriveva, alla fine del suo taccuino, il diciannovenne David, il 3 agosto 1942, prima di essere deportato.

«Possa il tesoro cadere in buone mani, possa durare fino a tempi migliori, possa allarmare e mettere in guardia il mondo su ciò che è accaduto… nel ventesimo secolo… Ora possiamo morire in pace. Abbiamo compiuto la nostra missione. Possa la storia testimoniare per noi».

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