Nella fine è l’inizio, in che mondo vivremo

di: Franco Monaco

covid

Scritto durante il lockdown primaverile, il libro di Magatti e Giaccardi dal titolo Nella fine è l’inizio, in che mondo vivremo, muove da un’idea forza che ha ispirato un buon numero di saggi: la convinzione che la pandemia rappresenti uno shock epocale, un trauma istruttivo, un’occasione preziosa ancorché drammatica che, da un lato, disvela i caratteri della società pre-Covid, i suoi limiti e le sue contraddizioni, dall’altro, suggerisce e anzi prescrive spunti utili per una severa revisione critica di essi e per loro superamento.

Sul piano macro, si fa cenno ai tre shock che hanno investito la realtà e il mito della globalizzazione, la quale ha avuto il suo incipit nel 1989 con la caduta del muro e la vittoria del capitalismo sul suo storico avversario: a) l’11 settembre con l’attentato alle torri gemelle, b) la crisi economico-finanziaria che ha scosso l’occidente tra il 2008 e il 2009, c) e, da ultimo e soprattutto, la pandemia.

Avremo un “nuovo inizio”?

Shock che hanno messo in discussione i capisaldi di quell’equilibrio: il dogma della crescita, il paradigma tecnocratico, le radici culturali individualistiche e utilitaristiche di quell’assetto e di quella ideologia. Un’egemonia culturale e un modello economico-politico che hanno fatto breccia anche nelle sinistre occidentali, ove ha preso corpo la locuzione «sinistra liberale», come se tra sostantivo e aggettivo non vi fosse una tensione dialettica.

Su queste basi, i due autori, come altri studiosi, coerentemente contestano l’idea di una «ripartenza» dopo la pandemia, avanzando piuttosto la proposta di un «nuovo inizio». Anche se il libro è stato pensato e scritto dentro la prima ondata dell’epidemia, l’approccio non è ingenuamente ottimistico.

L’idea dell’occasione, del kairòs è accompagnata dalla pensosa consapevolezza che si tratta di una sfida singolarmente impegnativa il cui esito non è per nulla scritto, che è perfettamente possibile che si esca peggiori e non migliori di come ci siamo entrati. Come persone, come comunità, come regime politico, nella tenuta delle nostre democrazie. Difficilmente dalle grandi crisi – e questa di sicuro lo è – si esce uguali a come ci si è entrati. Tuttavia, a supporto della loro ricerca e della loro proposta «generativa» – parola non da oggi cara ai due autori – sta ultimamente la fiducia nelle risorse dell’uomo come soggetto libero e responsabile.

Cinque “abiti virtuosi”

Forti di questa fiducia, essi suggeriscono e svolgono cinque percorsi condensati in cinque parole dense ed evocative, come finestre sul futuro, che designano – direi così – altrettanti «abiti virtuosi» suscettibili di essere applicati sia ai comportamenti personali che ai comportamenti collettivi, compresi quelli politici. Eccole: resilienza, interindipendenza, responsività, cura, protensione.

Resilienza, parola oggi di moda, sta a significare capacità di assorbimento di uno shock, ma, a seguire, di adattamento ai suoi effetti e, infine, di innovazione-trasformazione: dalla medicina del territorio a un nuovo welfare, alla digitalizzazione, ai cambiamenti lungo l’asse casa-lavoro-mobilità. Dei quali abbiamo conosciuto i limiti e, rispettivamente, le risorse dentro il lockdown.

Interindipentenza che è parola composta, un neologismo coniato da Raimon Panikkar. Esso allude alla singolarità e autonomia della persona, ma, insieme, inestricabilmente, alla relazione umana, che è esperienza costitutiva della persona stessa eppure negletta nelle nostre società dominate dalla connessione virtuale permanente e onnipervasiva. Abbiamo imparato che, senza gli altri, non possiamo vivere. Sul piano macro, ci ha fatto riflettere sul globalismo: esso non cancella il limite e i confini, solo ce li fa interpretare come limen e non limes (tema caro a Cacciari), cioè come soglia, come punto del contatto e dell’incontro.

Sottile è la distinzione tra responsività e responsabilità: nelle nostre società forgiatesi intorno al dogma della libertà essenzialmente intesa come autodeterminazione si richiede in primis di riconquistare il principio di reciprocità e responsabilità, ma, di più, di radicare quel principio nel legame comunitario, in una relazione che ci costituisce e ci precede. Senza questo humus inesorabilmente la sbornia di una libertà malintesa e sregolata conduce al paradosso, già in atto prima della pandemia ma che, con essa, ha conosciuto un’accelerazione, delle pulsioni securitarie, verso una società della sorveglianza e dell’assoggettamento. Una sindrome che investe le nostre stanche democrazie.

Si diceva poi della cura, cui sono dedicate pagine penetranti e suggestive. Di nuovo, muovendo da uno dei tratti salienti delle nostre società occidentali, quello della potenza, specie tecnologica, scossa dalla pandemia, ci siamo scoperti fragili e vulnerabili. Nei beni a noi più cari: vita, salute, affetti. Sono altresì aumentate a dismisura povertà, disoccupazione, precarietà, disuguaglianze. Ciò che più conta, ai fini di una «conversione», è la consapevolezza che la fragilità è immanente alla condizione umana e che tutti indistintamente la conosciamo o la conosceremo. Su queste basi, si può sperare di affrancarsi dal paradigma di relazioni informate alla potenza nelle sue varie declinazioni: il dominio, il possesso, il contratto, per prendersi cura del mondo e degli altri. Nel lessico cristiano: la misericordia.

Da ultimo, la protensione. Abbiamo sperimentato come non mai un sentimento di incertezza, di paura, di angoscia. Sia per la malattia e la morte incombenti, sia per un futuro oscuro, per un destino ignoto. Le ricette della scienza, della politica, della religione si sono rivelate inadeguate. Storici e filosofi ci ammoniscono: nel secolo scorso, quei sentimenti sono stati il preludio di svolte antidemocratiche. Possiamo sfuggire al fatalismo e al catastrofismo solo grazie a un salto, a una fiducia intesa come affidamento e scommessa sulle risorse dell’uomo. «Sospesi sulla morte – notano gli autori –, abbiamo sentito che la vita non è mera sopravvivenza». Essi ci propongono una espressione di Albert Einstein: «la creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura» e il monito di Thomas Merton: «la speranza si acquista sull’orlo della disperazione». Ci si deve «protendere», come la sentinella del versetto del profeta Isaia, che nella notte vigila (nel senso forte della cristiana vigilanza, nutrita di realismo e di speranza) ma si protende verso l’alba.

Un pronostico azzardato?

Verso la fine, gli autori si spingono a formulare una previsione che oggi suona più incerta e problematica e che, sotto forma di interrogativo, in queste ore, accompagna il lettore di nuovo immerso nella recrudescenza della pandemia: «oggi siamo sicuramente più pronti per affrontare un’eventuale seconda ondata».

Ci piacerebbe condividere questa convinzione, ma le cose si stanno rivelando più difficili, sia nella risposta della scienza e della politica, sia in ciò che si agita dentro di noi. E tuttavia ci pare di poter concludere che la sostanza delle riflessioni raccolte in questo studio non sono datate, che gli interrogativi di ieri non si discostano da quelli di oggi. Del resto, gli autori – come si è osservato – si mostrano avvertiti che l’esito della sfida non è scritto, che la speranza non coincide con l’ingenuo ottimismo, che molto, anche se non tutto, dipende da noi.

  • Chiara Giaccardi – Mauro MagattiNella fine è l’inizio, in che mondo vivremo, edizioni Il Mulino, Bologna 2020, pp. 180, € 15,00, EAN: 9788815290564.
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