NEGLI USA SI VOGLIONO ELIMINARE I SOGNI ANGOSCIOSI Ma senza incubi non c’è sollievo (né arte)

ROBERTO MUSSAPI

Inquietante fenomeno proveniente dagli Stati Uniti, dove scienziati hanno elaborato una terapia per eliminare gli incubi, trasformandoli in storie analoghe, ma dagli esiti, e dagli scenari, diversi. La motivazione di questa fortunata impresa starebbe nell’attuale crescente diffusione degli incubi, soprattutto da parte di persone che sono state in guerra, o traumatizzate. Dovremmo quindi dare per scontato che i reduci della guerra tra greci e persiani, o gli italiani superstiti della campagna di Russia, o gli africani trasportati nelle navi negriere per essere venduti come schiavi, o tutte le donne e gli uomini violentati della storia, dormissero sempre sonni tranquilli. E soprattutto dovremmo immaginare che l’incubo sia solamente prodotto da effetti traumatici e non da ragioni imperscrutabili, come ogni lettore sa bene, avendo come chi scrive provato incubi apparentemente immotivati. L’idea di raddrizzare, di educare l’incubo, di intervenire sullo spazio interiore dell’uomo, pare umoristica, ma è formulata, fornita e pagata con serietà, quindi è drammatica. L’incubo non è la peste, l’aids, la sclerosi, una malattia da debellare. È una componente della nostra vita. Lo sapevano Platone e Ingmar Bergman, e ne conoscevano i poteri oscuramente rivelatori. Vorrei essere chiaro: capolavori come la Divina Commedia di Alighieri o le tragedie di Shakespeare nascono dal genio del poeta.

Che attinge alla sfera dell’esperienza umana a livelli preclusi all’uomo comune.

Non nascono dall’incubo. Ma senza incubo la visione di Dante non partirebbe dall’angoscia della selva oscura, la foresta di Macbeth non sarebbe dominata dalle streghe, e la tragica verità sul regno di Danimarca non sarebbe annunciata ad Amleto dallo spettro del padre assassinato, di notte, nel gelo e nel nevischio degli spalti del castello di Elsinore. L’incubo non è origine dell’arte, come potrebbe pensare qualche dilettante disturbato, ma fa parte della nascita della grande arte quanto il sogno lieve, la visione, la levitazione dell’anima verso una zona aerea e più pura. L’idea di eliminare l’incubo è grottesca, equivale a progettare la lobotomizzazione dell’inconscio. Qualcuno potrebbe obbiettare, «sì, ma questo vale per le opere degli artisti. E che cosa ce ne importa?». Di questi tempi una domanda del genere può essere messa in conto. Diserbato il campo dell’anima, anche la poesia e l’arte possono essere considerati optional. Anche fingendo di accettare tale obbiezione, la questione non cambia: non è problema dell’artista, ma dell’uomo. In qualunque essere umano convivono sogno liberatorio e incubo, felicità inconscia e malessere, euforia e abbattimento. La sfera psichica umana è identica, l’artista non è un marziano ma uno che ne affronta e a volte svela gli enigmi. Per qualunque persona l’incubo, che comunque non è gentile augurare a nessuno, è comunque sintomo di qualcosa: a volte della pura paura della morte e del buio, senza la quale non saremmo umani, a volte di qualcosa di più disagevole e grave: l’incubo può essere anche sentito come sintomo di rimorso, o disagio. Ma nessuno può trovare la serenità evitando, rimuovendo le ragioni del proprio disagio, o addirittura del proprio rimorso. O del proprio senso di umiliazione, se ha subito violenza. Il problema del reduce non è l’incubo, ma la guerra. L’incubo semmai testimonia la salute spirituale di chi ne soffre. E quando così non è, quando l’incubo si presenta gratuitamente, per suo diletto (è la maggior parte dei casi), svolge un ruolo meraviglioso: ci consente, al risveglio, di benedire la vita. Un uomo vaccinato contro l’incubo, deresponsabilizzato di una parte del proprio sentire, sarebbe un idiota. Per questo non è eccessivo temere che l’idea possa divenire di moda.

avvenire.it 1 agosto 2010