Musica. Negrita: «Il rock è una spinta irresistibile a dare il meglio»

Negrita: «Il rock è una spinta irresistibile a dare il meglio»

Esiste davvero, esiste ancora, un rock italiano? I Negrita, band aretina sulla scena dal ’93 e in tour da oggi a Bologna col nuovo album Desert Yacht Club (altre date giovedì a Roma e sabato a Milano), alla domanda sorridono. In fondo vi rispondono già col loro percorso, un coraggioso e continuo rinnovarsi che li ha portati dai primi successi ferocemente abrasivi degli album di fine secolo Reset o Radiozombie, sino a contaminare ruspanti radici rock coi suoni pensati di una contemporaneità che il rock, in fondo, pare averlo superato. Attenzione, però. Non è che Desert Yacht Club ci consegni la foto di una band integrata o peggio ancora arresa; semmai, la maturità di scrittura dei Negrita del 2018 si fonde con una produzione sonora intarsiata di sfaccettature, che ne punteggia resistenti ruvidità rock con aperture sudamericane, sfondi elettronici, sprazzi triphop, melodici e persino ballabili. Tutto ciò inevitabilmente comporta qualche sbilanciamento verso l’ovvio, però mai fa perdere i Negrita oltre le colonne d’Ercole di una dignità d’autore ancora capace di toccare vertici fra intimismi e denunce: negli stridori d’afflato cantautorale di No problem come nell’essenzialità frastagliata quasi blues di Voglio stare bene;nelle grida battenti di Talkin’ to you come nel gioiello Ho scelto te, pop-rock elettronico con magnifico testo scagliato argutamente addosso a edonisti e narcisisti.

Certo non è più il rock conosciuto dai grandi anni Settanta, e nemmeno quello degli esordi dei Negrita; loro per primi lo definiscono «saper tradurre gli stimoli nuovi del mondo in un crossover che abbia senso qui e ora», loro per primi a parlargli di rock sorridono. «Se ne fa poco, ormai. Il panorama è un mix eterogeneo di pop, rap, musica indipendente: forse siamo ancora rock noi, Afterhours, Verdena, quelli sulla piazza dagli anni Novanta. Ma il punto è: c’è rock nel mondo, dopo i Nirvana e i primi Radiohead? Ci sono i Muse, forse; band di nicchia, elettrorock sinfonico… In realtà poco smuove le masse col linguaggio del rock, da vent’anni a questa parte». E allora, ben venga il crossover dei Negrita versione 2018: fra artigianato e industria, ruvidità e introspezione, forse in fondo lo fanno sopravvivere, questo rock.

Questo è il vostro decimo album, che definite nato da un periodo di crisi violenta: ovvero?

«In un brano cantiamo Adios paranoia proprio a celebrare l’uscita da un momento durissimo. Come ogni band litighiamo da sempre, ma a un certo punto ci siamo trovati a fuggire dalle routine dell’Italia per suonare all’estero, portandoci dietro problemi molto pesanti abbinati alla voglia di uscirne. In California abbiamo provato ad approcciare la musica in modo nuovo, usando la tecnologia del quotidiano e strimpellando dovunque con strumenti presi a noleggio e portati con noi sul furgone. E a un certo punto la musica è fluita, ha fatto da toccasana: ci siamo ritrovati a comporre insieme, cercando forti emozioni e non più botte di suono per le orecchie. Ciò, unito a cambiamenti nei nostri rapporti umani, ci ha fatto uscire dal tunnel più di quanto noi stessi ci contassimo. E però solo a novembre, a disco quasi chiuso, ce ne siamo davvero resi conto».

Qualche anno fa dicevate che il rock salva la vita: è sempre così per voi Negrita?

«Quando vedi un amico risvegliarsi dal coma ascoltando le cassette della band del liceo intuisci la forza della musica. E ognuno di noi in dati momenti ha trovato conforto in canzoni o parole delle canzoni: forse il rock sostituisce aiuti che non arrivano da società e famiglia. Sicuramente, il rock dà appigli sicuri, induce a tirare fuori il meglio, permette di evitare la depressione dandoti un ruolo in un microcosmo che sostituisce compagnie assenti o sballate. Consola, fa sentire importanti, permette di credere ancora nei sogni».

Però i giovanissimi snobbano questo rock per il rap.

«Forse è naturale: il rap permette di esprimersi al volo, senza avere basi musicali o saper suonare strumenti. E già negli anni Novanta i Red Hot Chili Peppers contaminavano rock e rap proprio per la forza coglibile in tutto il mondo di quel nuovo linguaggio. Non è detto comunque che la musica come la fruiscono oggi i giovani sia banalizzata: ne conoscono molta, vi imparano sopra le lingue… Certo non è più necessità né arte né primo riferimento per comunicare: è sottofondo, sfogo. Ma per le masse forse lo erano anche i juke box del rock anni ’50».

Nel cd cantate da padri: paure per i vostri figli?

«Le solite, quelle di tutti. Questi adolescenti sono più svegli di noi, più preparati, soprattutto molto più informati: in compenso la società è più dura, e bisogna dar loro armature di anticorpi di ogni tipo…».

Cosa vi hanno insegnato i tour esteri di successo, o esperienze tipo Jesus Christ Superstar del 2014?

«A capire come essere credibili. Quando non capiscono le parole come in Cina o Giappone, o rifiutano i nostri riferimenti anglosassoni perché per loro gli Usa sono dittatura, come in Sudamerica, devi imparare a tradurre in modo nuovo quello che sei. L’esperienza del musical poi ci insegnò rapporti diversi fra chi recitava e chi suonava, nell’esperienza devastante di accompagnare Cristo al calvario ogni sera per due mesi… Ma è proprio con esperienze come queste che abbiamo corroborato la scelta di cambiare spesso strada inseguendo un nostro crossover. E speriamo con questo album di essere giunti a un linguaggio-Negrita che dentro un panorama scaduto riscatti le nostre fragilità di band, rendendoci originali nel nostro muoversi fra le novità del mondo. E il tour che parte oggi in fondo è un altro banco di prova per capirlo».

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