MUSICA Faber, “La buona novella” è siciliana

Fabrizio De André, perlomeno in pubblico, non ha mai cantato in siciliano. Ma gli sarebbe piaciuto farlo. È Dori Ghezzi stessa a confessarcelo. Nel solco questo della riscoperta proprio che il cantastorie Francesco Giunta fece di Rosa Balistreri quando nel 1996 la riporta in vita in quel di Licata, dove la grande cantantessa passò, ripubblicandone per l’etichetta Teatro del sole una serie di lavori ormai introvabili. Operazione che gli procura nel 2007 un incontro allo Spasimo con il regista Wim Wenders, in Sicilia per le riprese di Palermo Shooting. Il regista sceglie un frammento di Quanno Morudi Rosa e gli sussurra all’orecchio che per lui Rosa è il Fabrizio De André del sud e viceversa.

E pensare che solo dieci anni prima Giunta stesso parlava proprio di Rosa con Fabrizio De André che il 7 novembre del 1997 tenne a Palermo un memorabile concerto. E si lasciarono con l’intendimento di portare in scena la lingua siciliana, È così che il carro di Tespi della musica italiana si tramanda di voce in voce. Fin da verso la metà degli anni sessanta con quel Ci ragiono e canto messo in scena da Dario Fo insieme alla stessa Rosa in compagnia di Ciccio Busacca. Prima di loro però c’era stato Luchino Visconti nel suo ostico e bellissimo La terra trema a dirci che si deve parlare in dialetto. Idea che piacque tanto anche al Pasolini visionario de I racconti di Canterburye Decamerone dove arriva a mescolare volti, dialetti, rendendoli nuovo frutto di un comune sentire.

Ed è proprio lo stesso Francesco Giunta, cantautore sapiente , che con la pubblicazione de La buona novella in siciliano, per il momento solo in formato vinile, a riprendere il corso di quella antica promessa che Faber non ha fatto in tempo a verificare. Al grido di: diventate anche voi amici per una buona novella. Che va pure oltre la provocazione che folgorò Fabrizio De André quando concepì l’opera, ormai nel lontano 1969 per salvare, diceva lui, il cristianesimo dal cattolicesimo. Erano tempi di lotte studentesche, tempi di rivoluzione. Suonava strano che in quel fermento arrivasse un poeta come Faber a suggerire di tornare a seguire e studiare la predicazione di Gesù Cristo. Non solo riagganciandosi ad un primo tentativo del 1967 con la canzone Si chiamava Gesù, ma riprendendo Pasolini de Il vangelo secondo Matteo. Opera capitale per comprendere chi fu il primo a lottare contro gli abusi del potere, contro ogni totalitarismo.

Ed è cosi che La buona novella oggi potrebbe essere riletta come la colonna sonora ideale de Il vangelo secondo Matteo.

Cantiamo da decenni le canzoni de La buona novella di De André: l’infanzia di Maria, il sogno di essere madre, il testamento di Tito, il ladrone buono, la via della croce, le tre madri, con dentro inserti di Stravinsky, ad opera di Reverberi e poi quel canticchiare di Faber di Blowind in the wind, come a ribadire che le cose nascono per palingenesi. Figure di un presepe vivente, di una sacra rappresentazione, che tornano a risplendere nell’adattamento in lingua siciliana di Francesco Giunta. Quasi ad apparecchiare un nuova novella di Natale. Che diventerà anche uno spettacolo per teatro insieme alla scrittrice Maria Cristina di Giuseppe e la benedizione della voce guida di Edoardo De Angelis. Con la consulenza linguistica del professor Giovanni Ruffino, dialettologo ed esimio della Crusca. E le voci di quattro cantanti strapaesane e sublimi come Giulia Mei, Cecilia Pitino, Alessandra Ristuccia e Laura Mollica. Per un trascinante adattamento pianistico di Beatrice Cerami. E in teatro anche la magica chitarra di Giuseppe Greco. Gli stessi musicisti presenti anche nel disco che è stato presentato venerdi scorso presso l’hub culturale della Regione Lazio Officina delle arti Pier Paolo Pasolini di Roma.

Francesco Giunta, il cantastorie, lui resta nell’ombra, firma l’opera ma non la canta. Quasi per pudore nei confronti di Faber. Ma si fa accompagnare dalla benedizione di Dori Ghezzi e della Fondazione De André presieduta da Adriano Bolsi. L’opera si presenta come un recitativo quasi cameristico, antico e moderno, con estratti narrati che contrappuntano l’andamento musicale dei brani. Non troviamo in scena la sfolgorante armata de I Quelli che in origine la eseguirono – la Pfm con aggiunta di un giovanissimo Angelo Branduardi al violino e Maurizio Fabrizio alla chitarra – ma quattro donne e una pianista. Vestite in nero. Come le tre madri nell’iconografia. Un coro a tratti sommesso, a tratti poderoso, da tragedia greca. La loro espressività e dolcezza e disperazione segnano il tempo stesso del tamburo che una di loro percuote.

Chi perde il dialetto, perde la lingua, pensava Fabrizio De André. Ed è proprio su questa scia che l’opera prende a marciare. Come una necessaria riflessione carnale sul destino dell’uomo: le sue leggi, i comandamenti. E la fede come momento di riflessione. Come se tutto il lavoro di Faber, adattato in questa occasione per piano e quattro voci, si guardasse allo specchio e nell’ombra del suo riflesso, la lingua siciliana, riscoprisse quel sapore di umanità, di verità; per come anche ciascuno di noi si porta dentro la storia dei Vangeli, in questo spettacolo a dimensione orale e di cunto siciliano. Un oratorio medioevale che riesce a mettere l’accento sulla particolarità di un ricamo, di un prio della voce: a na vistina di casa un ciuriddu cusero. Ovvero quell’inizio che recita: cucito qualche giglio sul vestitino alla buona. Un merletto messo in musica. La storia nuovamente da raccontare di Maria assegnata a Giuseppe, un anziano falegname, uno di quelli senza moglie, ormai uno scapolo, per via di uno strano gioco di lotteria. E che concepì Gesù durante la sua assenza in Galilea. Per una nuova novella.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Francesco Giunta, il cantastorie, firma la storica opera del 1969 di Fabrizio De Andrè adattata per piano e quattro voci femminili Canzoni in dialetto siciliano in un recitativo quasi cameristico

Giulia Mei con Laura Mollica ne “La buona novella” di Fabrizio De Andrè, tradotta da Francesco Giunta / Meta Studio per Officina Pasolini

Fabrizio De Andrè (1940-1999)