Musica, chiesa e piazza

«Nato per portare la musica nella piazza, questo festival adesso ha portato la piazza nella musica», mi diceva qualche giorno fa un collega musicista. Un aforisma che forse vale anche per altri ambiti…

Qualche giorno fa parlavo con un collega musicista, che, riferendosi ad un festival che – a suo vedere – ha un po’ abbandonato la propria vocazione originale, ha commentato: “Nato per portare la musica nella piazza, adesso ha portato la piazza nella musica”. La frase mi ha colpita molto profondamente, perché con la forza di un aforisma condensa in pochissime parole una verità cruciale, che si estende ben oltre il caso specifico del festival, e anche ben oltre il mondo della musica classica in sé.

Ci sono cose e realtà che amiamo, e che desideriamo diffondere. Amo la musica classica; più mi addentro in certi brani, nello stile di certi compositori, nelle loro tecniche e in ciò che potevano voler trasmettere con la loro musica, più mi appassiono a questo mondo meraviglioso, difficile, arduo talora, ma anche immensamente appagante e intensamente commovente. Dopo tre decenni di musica classica, mi prende il nodo alla gola quando posso cantare un brano di Bach udito innumerevoli volte, ma in cui finalmente la mia voce può contribuire alla creazione di quell’armonia oltreumana e oltramondana che vi si trova.E vorrei che quest’amore per la musica classica potesse essere trasmesso a tante persone che non l’apprezzano e non la comprendono solo perché non c’è nessuno che li aiuti ad entrarvi, dia loro qualche indicazione di percorso per penetrare nelle sue foreste, li incoraggi a posare lo sguardo su un fiore nascosto, ad ascoltare un piccolo uccello in lontananza.

Amo anche, in modo diverso e ancora più intenso, la fede cristiana; anche qui, dopo tanti anni, cambia il mio modo di viverla, cambiano emozioni e sentimenti, cambiano pensieri e domande; ma sempre mi affascina, sempre mi conquista, e più cresco più mi sembra luminosa la verità che offre. E anche qui vorrei essere in grado di proporre, con umiltà e nella libertà del rispetto, tale verità; perché molte persone cercano disperatamente (o, peggio, hanno smesso di cercare) un senso alla loro vita, e “se conoscessero il dono di Dio”, come disse Cristo alla Samaritana, forse potrebbero “trovare ristoro per le loro anime”.

È naturale che si desideri diffondere una cosa bella, farla gustare ed assaporare ad altre persone, rendere molti partecipi della bellezza. Come farlo, è il problema. In fondo, la predicazione di Cristo stesso finì con un profondo fallimento, con numeri esigui e con la crocifissione.

Ci può essere la tentazione della torre d’avorio, sia per quanto riguarda la musica classica sia per quanto riguarda la fede. Trincerarsi dentro il proprio mondo di piccoli numeri, far quadrato, arroccarsi, difendersi dal mondo esterno.
Ma così non si va lontano; si diventa delle sette, si diventa un’élite, si tradisce il senso stesso di ciò che si sta facendo: perché la musica è comunicazione, e il Vangelo è una “buona notizia”.

Ha molto più senso cercare di portare la bellezza, dalla torre d’avorio, fino nella piazza; offrire la cosa bella, la cosa vera, la cosa buona a chi passa, confidando che tale bellezza, tale verità e tale bontà possano conquistare il passante ignaro, chi quel giorno si trova a transitare lì davanti, chi non pensava di poter trovare “ristoro” nei luoghi dello svago, degli acquisti, del divertimento. Fuor di metafora, credere che la bellezza stessa ha tutti i numeri necessari per avvincere e convincere, e “limitarsi” a trovare il coraggio di confidare in essa per proporla al di fuori delle cerchie che “si sa già che l’accoglieranno bene”.

E, tante volte, sia noi musicisti sia noi cristiani abbiamo troppo poca fede nella bellezza di ciò che facciamo, crediamo e viviamo; e troppo poca fede nella capacità dei nostri simili di riconoscere, con istinto infallibile, dove risiede la vera luce, dove c’è qualcosa di veramente valido che val la pena seguire.
Questo è, nelle parole del mio amico, “portare la musica” (o la fede) “nella piazza”.

La tentazione opposta a quella della torre d’avorio è però non meno perniciosa: è, ancora una volta, una mancanza di fede nella bellezza e nella verità, perché crediamo di rendere più bello il David di Michelangelo se gli facciamo indossare vestiti di Armani; crediamo di rendere più “accessibile” e affascinante la musica di Bach se le sovrapponiamo il tunz-tunz di una batteria. Crediamo di rendere più “popolare” il Vangelo se lo trasformiamo in una melassa da soap-opera.

Questo è “portare la piazza nella musica”, ossia sovrapporre i disvalori della società, la ricerca del semplice piacere immediato, la svogliatezza nel perseguire qualcosa di difficile ma immensamente appagato, alla verità ed alla bellezza stessa. Vogliamo mettere scale mobili per raggiungere l’Everest; vogliamo addomesticare qualsiasi difficoltà, e in tal modo perdiamo il sapore di tutto. E se trasformiamo la fede in soap-opera, qualsiasi soap-opera avrà produttori più svegli di noi e attori più affascinanti dei nostri; se trasformiamo Bach in rock avremo un pessimo Bach ed un pessimo rock.
In fondo, quando Cristo dice di non gettare le perle ai porci non ci invita ad un atteggiamento elitario (“noi abbiamo le perle, voi siete i porci, non ve le diamo”); anzi! Ci invita, per così dire, ad “educare” i “porci”, affinché possano capire ed apprezzare la bellezza gratuita, non “commestibile” ma non per questo meno preziosa, delle perle.

E le strategie che mirano ad “addomesticare” bellezza e verità sono in fondo espressioni del nostro egoismo: siamo noi che, non fidandoci della verità e della bellezza, le vogliamo rendere più appetibili per poterci gloriare di grandi numeri, per poter vedere che “tanta gente” viene ai nostri concerti, oppure ascolta le parole del Vangelo, oppure apprezza le cose che facciamo. Ma il nostro obiettivo non dev’essere la nostra autoglorificazione, l’appagamento di chi ha sale da concerto o chiese piene. Vogliamo che sia il cuore delle persone ad essere veramente conquistato da una bellezza di cui siamo semplicemente tramiti, e tramiti il più trasparenti e meno invadenti possibile.

Fondamentale, quindi, non perdere mai di vista queste mancanze di fede nella bellezza che ci portano o all’arroccamento, o alla svendita; al marketing o allo snobismo. E cercare, invece, di provare tutti i giorni, umilmente e coraggiosamente, ad offrire la nuda verità, la semplice bellezza, la bontà vera a chi ci sta intorno. Sapendo che l’uomo ha una tal sete di bellezza e verità che, se le sapremo offrire senza orpelli e senza mascherate, le saprà riconoscere; mentre, forse, quanto più ci sforzeremo di renderle simili alle strategie vincenti del mercato, tanto meno saranno riconoscibili nella loro trascendenza, alterità, infinito splendore.

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