Merton, i quattro nemici della poesia

La visione del monaco come colui che adempie la vocazione “poetica” tra gli uomini in maniera distintiva suggerisce qualche disamina di ciò che Thomas Merton ha da dire sulla poesia. Se tuttavia si va alla ricerca nella sua opera di definizioni della poesia o del poetico, a volte si potrà restare parzialmente delusi: come hanno spesso intuito i teologi, è piuttosto difficile fornire definizioni positive di ciò che ha più importanza. È possibile che si finisca per definire più chiaramente ricorrendo a negazioni, dicendo di cosa non si sta parlando.

Il «Messaggio ai poeti» del 1964, breve saggio che venne letto durante un incontro di poeti latinoamericani tenutosi a Città del Messico nel febbraio di quell’anno, e le «Risposte su arte e libertà», che risalgono all’incirca allo stesso periodo, anch’esse scritte per un pubblico latinoamericano. Entrambi i testi espongono chiaramente non solo che cosa la poesia non è, ma anche ciò a cui essa si oppone.

In primo luogo, per Merton, la poesia non è, ed è contro, la magia. La poesia non riguarda parole che operano qualcosa. «Sono l’uomo d’affari, il propagandista, il politico, e non il poeta, a credere devotamente nella magia delle parole», scrive Merton; «per il poeta non vi è per l’appunto alcuna magia, ma vi è solo la vita, con tutta la sua imprevedibilità e tutta la sua libertà. La magia è nella sua globalità uno speculare senza scrupoli sulla manipolazione, un circolo vizioso, una profezia che adempie se stessa». Parole che «operano qualcosa» indipendente dalla loro trasparenza alla verità, sono parole magiche. Esse vivono senza ancoraggio nella realtà. Esistono onde esercitare potere, controllare o sviluppare una situazione secondo la volontà di chi le proferisce.

A questo proposito assumono immediata rilevanza alcuni degli indimenticabili saggi che Merton scrisse nella metà degli anni Sessanta riguardo al linguaggio della guerra, che rappresentava ai suoi occhi un esempio emblematico di linguaggio magico. Della guerra si parla in modo tale da occultare la realtà del conflitto o della sofferenza. Si parla di essa in modi il cui unico fine è creare una coscienza analoga alla propria, un’ulteriore volontà che si proietta nel vuoto. Ritengo tuttavia che Merton, in tal modo, stia lanciando indirettamente qualche frecciata ad alcuni generi di autoconsapevolezza poetica nel senso negativo del termine: uno stile poetico che diventa autoreferenziale, inclusivo solo del sé. Quel genere di poetare a ruota libera può essere bollato come una parodia del linguaggio ineffabile dello Stato, l’«Orco», come lo avrebbe chiamato Wystan Hugh Auden; ma di per sé non è l’essenza della poesia.

La poesia non è, ed è contro, la magia, e dunque, più in generale, la poesia non è, ed è contro, l’essere utile, specie di quell’utilità a cui pensiamo in termini moralistici. Scrive Merton: «Non siamo come chi desidera che l’albero prima fruttifichi e poi fiorisca. Un gioco di prestigio e una pubblicità. Ci basta che prima venga il fiore, seguito dal frutto a tempo debito».

Un’utile poesia morale è un’aggiunta a qualcosa d’altro. In quanto poesia, potrebbe esserci come pure non esserci. La poesia non è e non può essere decorativa in tal modo, e in questo senso non è mai mera retorica. Non si limita mai semplicemente a persuadere chicchessia a fare o a pensare qualcosa: per quanto significativo sia il suo scopo, per quanto buone le sue finalità, una poesia che sia tesa a determinati fini, che sia funzionale, una pubblicità, tradisce se stessa. E quella frase, «un gioco di prestigio e una pubblicità» è decisamente eloquente. Una poesia che sia una pubblicità è una poesia il cui punto non risiede in essa. Ciò significa che l’autentica poesia è lavoro: fare qualcosa che ha un’integrità propria.

Questo mi porta alla terza cosa che la poesia non è, e contro cui essa si pone. La poesia è contro qualsiasi concentrazione sull’artista più che sull’opera. Concentrarsi sull’artista piuttosto che sull’opera è come focalizzare per l’appunto la nostra attenzione sulla volontà di manipolazione e di controllo che è nemica di ogni parola autenticamente veritiera. E ancora una volta, non a caso, il mio sguardo si volge verso Auden. Egli, già da studente universitario, era un critico decisamente austero della poesia dei propri contemporanei, e si narra un bell’aneddoto di uno dei suoi primi incontri con Stephen Spender, che un giorno irruppe nella sua stanza per dirgli che da grande avrebbe voluto essere un poeta. Auden rispose: «Vuoi dire che non intendi scrivere poesia?».

Infine, allora, la quarta cosa che la poesia non è, e contro cui si pone, è qualsiasi senso dell’io e della sua consapevolezza che lasci trapelare l’idea che abbiamo un numero indefinito di scelte. La poesia è contro il romanticismo di una volontà che turbina nel vuoto.

Ecco dunque i quattro nemici della poesia: e una modalità dello scrivere che eviti siffatte tentazioni e distorsioni e le resista sarà una scrittura religiosa.

 

Rowan Williams – avvenire.it