Merini, il museo che manca

LUCIA BELLASPIGA
 «A h, va dalla poetes­sa…». Anche i taxisti, se chiedevi di lasciarti in Ripa di Porta Ticinese al 47, sapevano che lì abitava ‘la poetessa’. Il clic del cancelletto che si apriva, un cortile, quattro rampe di scale, poi la sua voce oltre la porta: «Entri, era ora, la stavo aspettando». E infatti aspettava, Alda Merini, agghindata per l’occasione: rossetto vivo, orecchini vistosi, fili di tante collane attorno al collo.
  Era il suo modo di farsi elegante, di dirti che la benvenuta lo eri davvero, e allora nei suoi occhi verdi, di solito così ironici o a tratti anche tristi, leggevi guizzi di contentezza. Ci era arrivata bambina, in quelle due stanze, sfollata dai bombardamenti del centro città, e con gli anni la piccola casa sui Navigli era divenuta la sua Terra Promessa, il porto sicuro cui tornare quando si schiudevano le porte del manicomio, l’unica meta desiderata: amava la celebrità, l’amore del suo pubblico le era linfa vitale, ma alle luci della ribalta preferiva l’angusta oscurità delle due stanze, un po’ nido e un po’ tana. Lì sono nati tutti i suoi capolavori, tra quelle pareti ha riso e pianto, su quell’intonaco restano scritti con penne di ogni colore gli appunti di una vita, i numeri di telefono, i nomi degli amici: «Sulla carta li perderei, sui muri prima o poi li trovo…». Solo nella sua casa di ringhiera la poesia trovava la strada per sgorgare e scorrere finalmente libera, «da un grand’hotel non caverei nulla», assicurava, accarezzando con lo sguardo il guazzabuglio di oggetti che si accumulavano fin sul pavimento e di cui si giustificava come una bambina còlta in fallo: «Mi diverto a comprare sempre qualcosa che non serve, prima ci gioco poi regalo tutto – sorrideva candida – .
  Lo faccio per guarire…». Niente di utile e tutto indispensabile. «Io sono fortunata che posso permettermelo, ma credo che per i vecchi non potersi comprare qualcosa di superfluo sia tremendo e umiliante, può diventare un delitto silenzioso, un uccidere lentamente la loro storia». La sua ha avuto un primo sussulto mortale quando, un pugno di estati fa, Alda Merini dovette sgomberare la soffitta della casa di ringhiera per il legittimo proprietario: nei cartoni che andavano e venivano traslocava metà della sua anima, riemergevano antichi amori e dolori sepolti, e a trasferirsi era la poesia. E adesso che lei non c’è più a svuotarsi è la casa, e mentre i suoi ninnoli, i manoscritti, le poesie, le lettere di grandi poeti, il pianoforte, le statuette dissacranti, i quadri religiosi, i premi, i falsi gioielli e il suo bastone vengono sigillati nelle scatole dell’ultimo trasloco (il termine dello sfratto scade oggi, le ore di proroga sono contate), il Comune di Milano promette cose troppo lontane: «Faremo un museo sui Navigli – ripete l’assessore alla Cultura, Finazzer Flory – raccoglieremo lì tutte le sue cose», ma intanto rischiano di finire sulla strada. «Abbiamo individuato gli spazi espositivi», ma non il camion per salvare oggi ciò che Milano dovrebbe conservare. «Il problema sono i costi»… Intanto, come si fa in una casa dopo la piena del fiume, le figlie della poetessa svuotano, incartano, imballano. Sulle pareti ormai spoglie (in fondo l’autentico museo della Merini) restano le scritte dei suoi giorni, ma fino a quando? Presto una mano di bianco cancellerà ogni cosa. «Andrò a riprendere quei muri, così nel museo potranno ricostruire esattamente la casa», ci diceva ieri, offrendosi in extremis, un fotografo di professione. «Lo farò gratuitamente», sempre che il Comune accetti. Se così fosse, avvinghiata alla sua casa di ringhiera, fieramente ostile alla Milano che cambia, che perde la sua memoria e apre alla movida, la Merini sorriderebbe finalmente più tranquilla.
avvenire 30/6/2010