Memoria da rinnovare per opporsi all’onda limacciosa del razzismo

da Lettere a Avvenire

Caro direttore,

vi leggo (quasi) giornalmente dalla città tedesca di Heidelberg, ove ho coperto un insegnamento di cultura italiana per 41 anni. Usurpo un poco del suo tempo e della sua attenzione per dire, innanzi tutto, a lei e ai suoi collaboratori la mia gratitudine per quanto (quasi) giornalmente ricavo dalla lettura di “Avvenire”. Ma, in secondo luogo, anche per segnalare un certo disagio, starei per dire morale, nell’apprendere – da fonti autorevoli – che «il fascismo ha fatto molte cose» e che è ora finalmente di «onorare il ventennio del Fascio». Una sola domanda: visto che c’è chi sostiene che dobbiamo onorare le leggi razziali antisemite, portatrici di morte (penso ai docenti ebrei del mio Liceo “Giovanni Berchet” in Milano), perché non aiutare tutti a capire che cosa furono e che cosa produssero chiamandole, finalmente, con il nome che si meritano, scilicet “leggi razziste”? Grazie per l’attenzione

Ettore Brissa, Heidelberg

Lei, caro professor Brissa, non è il primo e non sarà l’ultimo a porsi e a porre a tutti il problema se l’aggettivo giusto per qualificare quelle leggi del 1938 sia “razziali” o “razziste”. La questione è seria, ma non mi pare così decisiva. Personalmente mi fa inorridire che nel mio Paese si sia potuto anche solo parlare di “leggi razziali”. E ritengo che non possa esserci il minimo dubbio sul fatto che le norme varate dalla dittatura fascista contro le persone di ascendenza, cultura e religione ebraica avessero purtroppo motivazioni e contenuto vergognosamente razzista e intenzioni insopportabilmente discriminatorie e distruttive. Anche per questo credo – come lei e, grazie a Dio e alla retta coscienza di tantissimi, non siamo affatto soli neppure in questo tempo diviso tra retorica e smemoratezza – che non merita oggi più di ieri e meno di domani alcuna compiacenza o indulgenza un regime dittatoriale che arrivò a codificare il razzismo. Non mi tolgo dalla mente una frase che Pio XI pronunciò in un colloquio con il gesuita padre Piero Tacchi Venturi, a lungo trait d’union tra la Santa Sede e il regime fascista, e che la storica Emma Fattorini riporta in un suo bel libro di undici anni fa “Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa” (Einaudi, 2007) basato su un’ampia documentazione dell’Archivio Segreto Vaticano. Pio XI, al secolo Achille Ratti, «Ma io mi vergogno… mi vergogno di essere italiano. E lei, padre, lo dica pure a Mussolini! Io non come Papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza». Esemplare. Da cittadini italiani, per umanità e civiltà, non si può seguire l’onda limacciosa del razzismo o addirittura abbandonarsi a essa. E da cristiani e da cattolici bisogna sapersi opporre a essa con limpida e pacifica fermezza.