Meditazione per il tempo della pandemia

settimananews

di: Nico Guerini

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Tempo fa, mi è capitato di incorrere in un collegamento al quale non avevo mai badato: la connessione tra il verbo latino precari (pregare) e un suo derivato precarius (precario). Mi è venuto naturale proiettare la scoperta sul tempo che stiamo vivendo, la cui caratteristica più peculiare è l’esperienza viva e desolante che la nostra condizione di creature è essenzialmente “precaria”.

Forse ce ne eravamo dimenticati, ma da mesi non è più possibile sorvolare su questo fatto, e capire che in fondo, al di là di quanto possiamo pensare d’istinto, noi non siamo padroni di niente, a cominciare dalla nostra vita, che ci è stata data, e della quale dobbiamo, e in qualche modo dovremo render conto, magari anche solo a noi stessi, di come la stiamo spendendo.

Passare dalla precarietà alla preghiera non richiede poi chissà quale sforzo. Ricordo quando, nell’adolescenza, mi capitò di leggere un bel libro di Romano Guardini, Introduzione alla Preghiera, dove mi colpì il primo e cruciale capitolo nel quale si spiegava che la base assoluta del pregare è il senso di «dipendenza». È un sentimento che va esplorato per comprenderne tutta l’estensione e la ricchezza, dalle più elementari esigenze fisiche alla percezione serenamente interiorizzata che siamo pieni di limiti, che dipendiamo da molte cose e persone, e alla fine, e sommamente, da Dio. Da lì parte la preghiera in tutte le sue forme: ascolto, lode, rendimento di grazie, ma anche dibattito interiore, e persino rivolta.

Una poesia che diventa preghiera

Sono andato a riprendere dei versi che arrivano dal medioevo inglese, composti da un anonimo all’inizio del Trecento, quando l’isola si trovò in un periodo terribile: gravi e prolungate carestie, disordini nella corte e nel governo, gravami fiscali per finanziare ripetute guerre, e per finire, nel 1348-49 la devastante peste nera che costò la perdita tra il 40 e il 60% della popolazione. È questo il contesto in cui è nata la poesia che presento. Non ho difficoltà a interpretarla come preghiera, che può dirci qualcosa anche oggi. È un modo di guardare al mondo, e tener viva la speranza.

Viene l’inverno e sveglia la paura:
ora che il ramo è nudo, senza foglie,
spesso sospiro e cedo al pianto amaro
quando mi viene in mente
che la gioia di questo nostro mondo
si dissolve nel niente.

Brilla per un istante, e poi si spegne,
come se non avesse consistenza.
Molti spesso lo dicono, ed è vero:
tutto sfiorisce, solo Dio rimane,
tutti dobbiam morire, e non ci salva
il nostro voler vivere.

Verde l’uomo ha seppellito il seme
che ora impallidisce nella terra.
Gesù, la pianta germini alla luce,
e scudo sii per noi contro l’inferno!
Io non so dove andrò, né quanto lunga
sarà la mia dimora nella notte.

Il declinare dell’anno, come lo spegnersi del giorno, riconducono ogni volta la mente al pensiero della fine, e, più ancora, a quell’esperienza quotidiana di morte che è l’accorgersi di come tutto sia effimero, “di un giorno”, appunto. La vita pare «come uccello che vola per l’aria, e non si trova alcun segno della sua corsa» (Sap 5,11), il trascorrere di un’immagine appena percepita e subito perduta, un decadere lento scosso da qualche sussulto, su uno sfondo di desolazione autunno-invernale. Nel medioevo era molto popolare una terzina che sintetizzava bene la natura della realtà e il suo destino:

Homo humus     L’uomo è terra
Fama fumus      La fama è fumo
Finis cinis           La fine è cenere

Si ricordi che la virtù regina, l’umiltà, nasce proprio da humus, ed è la perfetta definizione della nostra condizione umana, è la nostra «verità», e guai a dimenticarsene. Ha detto bene Maurice Bellet: «L’umiltà è la sola virtù assolutamente sicura, perché è la sola di cui non ci si può vantare» (Minuscule traité acide de spiritualité, p. 73).

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Cercare ciò che rimane

La stagione invernale ha generato molta letteratura, soprattutto al tempo del romanticismo, dove può prevalere una sorta di quieta malinconia in cui crogiolarsi. L’autore medievale ci appare molto più smagato. Le “foglie morte” non sono materia per nostalgiche rimembranze. Il paesaggio sfatto che ora ha davanti lo fa piangere, sveglia non la vita, ma “la paura”, scuote le radici della sua fiducia nella felicità: se essa è così fuggevole, se muore continuamente, sarà poi vera? O non piuttosto una tragica illusione?

La stessa constatazione che la morte è realtà che tutti uguaglia non è un’affermazione in cui riposarsi. Nessuna sicurezza definitoria qui, nessuna risposta presuntuosa all’interrogativo svegliato dal cader delle foglie. L’inverno che addormenta la natura non placa l’uomo: gli agita dentro i fantasmi della paura, diventa presagio di un nulla incombente, fino a mettere radicalmente in crisi la sua voglia di vivere, che, per quanto determinata e forsennata, non lo salva dal disastro.

Riflessione disperata allora? Strada senza uscita?

L’immagine vegetale (le foglie) che aveva provocato paure di morte è ripresa (il seme) per condurre il pensiero a un porto di speranza. Anche il seme partecipa al decadere cosmico: è “sepolto” nella terra, “impallidisce” nel livido colore dell’agonia, si disfa. Ma questo non è la morte, è una premessa, anzi, è una promessa di riscatto, di un vigoreggiare nuovo, quando, vinte le tenebre dell’abisso, lo stelo esce a catturare la luce.

Il dissolversi di tanta gioia è invito a cercare ciò che rimane. La strada della ricerca è già stata segnata: «Tutto quello che nel mondo lusinga l’avidità della carne, o abbaglia gli occhi, o crea un senso di fiducia strafottente nei propri beni, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa, con tutte le sue cupidigie, ma chi fa la volontà del Padre rimane in eterno» (cf. 1Gv 2,16-17).

Allora, la dolorosa constatazione della transitorietà diventa, in una lettura più profonda delle cose, giudizio che discrimina tra ciò che dura e ciò che svanisce, condanna radicale delle nostre voglie di possesso che ci fanno attaccare alle cose di un giorno e andare in rovina con esse.

È un cammino di libertà quello che ci si prospetta, dove conta battere la golosità che ci fa volere tutto ciò che vediamo e ci attira. È una scelta faticosa, con la voglia di “vivere” e di prendere che cresce quanto più la vita si accorcia. È una vera e propria morte, come quella del seme nascosto nella terra. Ma almeno possiamo fare nostra la preghiera che T.S. Eliot ha così bene espresso nel suo Mercoledì delle ceneri: «Insegnaci a curare e a trascurare», teach us to care and not to care!

Tra nostalgia e attesa

La morte è il darsi nella gratuità assoluta dell’amore, come il Cristo che, parlando dell’ora della sua morte, diceva: «In verità vi dico, se il chicco di grano caduto in terra non muore, resta solo, se invece muore porta frutto in abbondanza. Chi ama la sua vita la perde, ma colui che cessa di attaccarvisi in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,24-25).

In questi versi si parla della morte del corpo. La poesia non risponde al problema con tesi o ragionamenti: è triste fare dell’accademia sulla morte! Qui è suggerita solo una strada, una preghiera che apra alla speranza, una domanda trepida perché Gesù venga in aiuto. C’è nel testo come un senso d’incertezza, quasi di angoscia, che non si riesce a vincere: anche se il corpo, seminato nella terra, germoglierà in nuova vita, troverà subito la minaccia delle fauci dell’inferno, la tenebra del lago profondo, da cui l’Offertorio della liturgia dei defunti chiede di liberarci. Solo Gesù può salvare.

Il poeta chiede soccorso, muovendosi tra il noi liturgico della comunità cui appartiene come membro di un “corpo”, e l’io al quale è ricacciato dalla gravità tremenda della situazione. La preghiera è spazio che comprende il grido di paura e la faticosa espressione della fiducia, luogo dove colgo la mia comunione con gli altri e, insieme, decifro e dico il mio intimo segreto.

Così tra la nostalgia e l’attesa delle cose che passano, quello che rimane fermo è Dio, un Dio che in Gesù si è fatto uomo, ha condiviso la nostra sorte, chicco di grano che è morto perché un giorno spunti finalmente una primavera su cui non gravi più la minaccia dell’inverno. E il bello della fede è proprio questo: mantenere la sensazione profonda e benefica di un Dio che si fa nostro compagno, anche nella e oltre la morte.