Lo sguardo sulla nostra vita: porta che va aperta

Non c’è spazio in noi per Dio, ha detto il Papa la notte di Natale, riecheggiando il peregrinare per Betlemme della partoriente per cui «non c’era posto nell’alloggio». Non c’è posto, ha aggiunto, «perché noi vogliamo noi stessi, le cose che si toccano, la felicità sperimentabile, il successo dei nostri perso­nali progetti». Siamo, ha detto ancora, così riempiti da noi stessi, che non resta spazio per Dio.

Nella notte Natale, la voce del Papa come la parola di un padre, che ai figli non può tace­re di ciò che loro più di tutto manca. E, a­scoltandolo, ci siamo sentiti fotografati nel profondo. Non ci lamentiamo forse in tanti di una fede da poco, di avvertire Dio come a­stratto, di non vedere, di non toccare davve­ro quella gioia che ci è promessa? Quanti di­cono: io domando, ma non c’è risposta. O invece, ci ha chiesto il Papa, non è Dio stes­so a essere respinto da noi? Non siamo noi, che teniamo chiusa la porta, che la sbarria­mo con cura perché abbiamo altro da fare, e nemmeno un minuto per lo Sconosciuto che bussa? La questione di Dio, poi, «non sem­bra mai urgente», osserva Benedetto. In ef­fetti: non adesso che sono giovane, non ora che cerco un lavoro, ora che ho i figli picco­li, o la famiglia da mantenere. Dio? È come una questione a latere. Ci penseremo davvero un giorno, da vecchi.

Ma ciò che dice il Papa è invece proprio l’ur­genza della metànoia di san Paolo: del la­sciarsi trasformare nel modo stesso di pen­sare. Dove la forma che indica un ‘essere a­giti’ è fondamentale, perché dice non di un proprio sforzo, ma di un lasciare fare a un Al­tro. Di un consentire a che entri, Colui che sta alla porta. In una conversione che secondo Benedetto deve arrivare «alla profondità del nostro rapporto con la realtà». (E difficil­mente di una tale metamorfosi un uomo è capace da solo; è quasi impossibile poi, da so­li, rinascere da vecchi, come desiderava Ni­codemo quando andava di notte a interpel­lare Cristo – quasi che il buio lo proteggesse, in quella domanda assurda e audace).

Così nel Natale, giorno spesso ridotto a va­cuo sentimentalismo, a fiaba per bambini, la voce di Benedetto XVI ha chiamato a una conversione del cuore inteso in senso bibli­co: cioè sentimento e ragione insieme.

Cioè ragione non ristretta – come è stato a molti di noi insegnato – a facoltà che misura soltanto ciò che può pesare, esplorare, dimostrare; ma una ragione invece allargata, che non neghi la possibilità che qualcosa la trascenda, e venga prima, e vada oltre il pensiero dell’uomo e la natura stessa della materia, per quanto la conosciamo. «Lasciatevi trasformare», domanda la frase della Lettera ai Romani proclamata l’altra notte in San Pietro. Aprite la porta, lasciate che sia Lui, a operare. Esortazione cui fa seguito nell’omelia quel forte «transeamus» pronunciato dal Papa, e da lui stesso tradotto come un andare di là, osare il passo che va oltre; osare la traversata dalle nostre abitudini, in là, verso l’essenziale. Verso il Dio che in Cristo si è fatto bambino, ha spiegato Benedetto, perché sa che il suo splendore ci spaventa. Un Dio che alle soglie del mondo si è presentato come un figlio appena nato, di cui nessuno ha paura, e che è istintivo accogliere e amare.

Ma, tutto questo forse noi non crediamo già di saperlo, e da sempre? Non siamo così abituati alla storia di Betlemme, che pensiamo che non ci sia più nulla da capire, nulla che c’entri con l’oggi? Come allora si può riscoprire la formidabile novità del Vangelo? «Lasciatevi trasformare», è la parola del Natale in San Pietro, a pochi giorni dal 2013, Anno della Fede. Qualcuno bussa. Occorre solo aprire, e deporre l’orgoglio di chi sa tutto, è capace, ‘a posto’, autosufficiente; lasciare che entri, come splendidamente recita la liturgia bizantina, «Colui che è presente in ogni luogo, ed ogni cosa porta a compimento».

Marina Corradi – avvenire.it

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