L’incertezza politica e la mancanza di un governo hanno riacceso i riflessori sul differenziale tra i titoli di Stato decennali italiani e quelli tedeschi. Ecco cosa c’è da sapere

La Borsa di Francoforte (Ansa)

La Borsa di Francoforte (Ansa)

Che cos’è lo spread?
In finanza si parla di “spread” per definire la differenza tra due valori, ad esempio il prezzo di acquisto e di vendita di un’azione. Ma lo spread di cui si è tornati a parlare in Italia in queste settimane è uno spread specifico: la differenza tra gli interessi dei titoli di Stato decennali italiani e tedeschi, misurata in centesimi di punto percentuale. Questo valore, che venerdì ha chiuso a 207 punti mentre una settimana fa era a 164 punti, è interessante perché fa capire quanto, secondo gli investitori, prestare soldi all’Italia sia più rischioso che prestarli alla Germania, considerata il più affidabile tra i grandi debitori governativi della zona euro.

Cosa fa muovere lo spread?
Essendo una differenza tra due valori, lo spread può muoversi in due modi: o perché variano gli interessi dei titoli di Stato italiani o perché variano quelli dei Bund tedeschi. Il problema centrale, per l’Italia, è se lo spread aumenta perché variano verso l’alto i rendimenti dei Btp. Significa che gli investitori si fanno più esigenti quando si tratta di prestarci denaro. Se i nostri interessi salgono, raccogliere fondi sul mercato per un ministero del Tesoro abituato a rifinanziarsi per 200-300 miliardi di euro all’anno può diventare molto più costoso del previsto. A muovere lo spread sono le operazioni degli investitori sul mercato chiamato “secondario”, quello dei titoli di Stato già emessi, che vengono venduti da chi li ha comprati.

Perché continua a salire?

Lo spread quando inizia a infiammarsi non segue di solito una progressione aritmetica, ma geometrica (di ragione due). Non aumenta, cioè, di pochi punti giorno dopo giorno, ma raddoppia progressivamente in breve tempo. La crisi politica e istituzionale italiana, con le voci sulla possibile uscita dell’Italia dall’Eurozona, ha fatto scattare il cosiddetto “panic selling”, le vendite a raffica sulla spinta della crisi di fiducia che sta colpendo il Paese. L’avvertimento sul possibile taglio del rating da parte di Moody’s ha ulteriormente surriscaldato il clima e, soprattutto per quel che riguarda la Borsa, bisogna anche considerare l’azione degli algoritmi che automaticamente iniziano a liberarsi dei titoli allo scattare di determinati allarmi, amplificando le perdite.

Qual’è il ruolo della Bce?

Con politiche monetarie ultra-accomodanti culminate nel piano di emissione di nuova moneta per acquistare obbligazioni di Stato e private, la Banca centrale europea in questi anni ha sterilizzato sui mercati il rischio di rottura dell’unione monetaria. Gli interessi di titoli di Stato dei paesi considerati a rischio sono precipitati. Per l’Italia c’è stata una caduta significativa: i rendimenti dei Btp decennali sono precipitati dai massimi toccati nel 2011 (oltre il 6%) fino a sfiorare l’1%. Questa situazione accomodante però va verso la fine. Quest’anno la Bce terminerà i suoi acquisti (al momento ha in bilancio 341 miliardi di euro di titoli di Stato italiani) e con la stabilizzazione dell’economia e dell’inflazione gradualmente potrà tornare a fare una politica monetaria “normale”. Toccherà al successore di Mario Draghi, il cui mandato termina alla fine del 2019, indirizzare il nuovo corso. I nostri Btp saranno sul mercato senza paracadute. Il rischio di bruschi scossoni o di attacchi speculativi sarà maggiore.

Perché il rating (giudizio) pesa sullo spread?

Le agenzie di rating sono società private che valutano le capacità di un governo, di una società pubblica o di un impresa di ripagare i propri debiti, i soldi cioè che ha raccolto dagli investitori promettendo loro un interesse sotto forma di rendimento. Se uno Stato, ad esempio, è considerato altamente affidabile, avrà un voto alto, il massimo è la “tripla A”, perché giudicato capace di ripagare fino all’ultimo centesimo i suoi creditori ovvero i sottoscrittori dei titoli di Stato. I giudizi di quattro grandi agenzie internazionali – S&P, Moody’s, Fitch e Dbrs – vengono anche utilizzati dalla Bce per comprare obbligazioni governative (i titoli di Stato come i Bot e i Btp, i Bund tedeschi o i Bonos spagnoli) nell’ambito del programma di facilitazione monetaria (il famoso Quantitative easing) iniziato nel 2015 per “calmare” la febbre da spread. Se un compratore del calibro della Bce, cioè, che acquista i titoli diventati troppo rischiosi, il rendimenti tenderanno a “calmarsi” e lo spread a rientrare. I rating vengono anche utilizzati dalla Bce nelle aste per la fornitura della liquidità che ogni mese permettono alle banche di funzionare. Francoforte utilizza sempre il “voto” più alto fra quello espresso dalle quattro agenzie di rating. E può acquistare solo titoli cosiddetti “investment grade”, non rischiosi, livello che li distingue dai “titoli spazzatura”. Attualmente l’Italia è per S&P, Moody’s e Fitch appena due gradini sopra tale soglia, tre gradini per Dbrs. S&P emetterà il suo giudizio in ottobre, Fitch il 31 agosto, Dbrs il 13 luglio e Moody’s – salvo sorprese, considerato l’annuncio di venerdì – il 7 settembre. Se perdiamo il giudizio “investment grade” la Bce non può più comprare il nostro debito e accettarlo come collaterale dalle banche per finanziarsi.

Quali conseguenze sulle imprese?
A risentire di un aumento dello spread ovvero dei rendimenti dei titoli pubblici sono anzitutto quelle imprese chiamate “banche”. Un taglio del rating sul debito sovrano si riflette del resto anche su quello degli enti pubblici e delle grandi società finanziarie, a partire dagli istituti di credito. Anche questi ultime, infatti, oltre a dipendere per la liquidità dalle aste della Bce (vedi domanda 6, ndr), si finanziano chiedendo soldi agli investitori, tramite i bond, in cambio della prospettiva di un rendimento. Ricordiamo che quando lo spread (e quindi i rendimenti) dei titoli aumentano, è il loro “prezzo” a diminuire. Quei titoli, cioè, valgono di meno. Secondo Unimpresa, dei quasi 2.290 miliardi di debito pubblico italiano di fine 2017 poco meno di un terzo era detenuto da fondi e istituzioni straniere, la Banca d’Italia – che compra i titoli per conto della Bce nell’ambito del QE – è al 15,45%, fondi di investimento e assicurazioni (le nostre pensioni e risparmi) detengono il 19,9%, famiglie e imprese sono a poco più del 5%, 120 miliardi circa. Le banche italiane hanno invece ancora in pancia oltre 300 miliardi di titoli. Una loro forte svalutazione avrebbe un impatto dirompente sui bilanci e quindi sulla capacità di erogare credito a imprese e famiglie. A risentire infine velocemente, fra le imprese, di un impennata dello spread, è il mercato immobiliare: perché il mercato dei mutui si inceppa.

E sulle famiglie?
Le famiglie “risentono” dell’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato in modi diversi, direttamente come “piccoli investitori” del debito pubblico italiano, di cui hanno in tasca circa 120 miliardi, e indirettamente come clienti delle banche ai quali chiedono prestiti e mutui o affidano i risparmi per metterli in fondi d’investimento e fondi pensione (rimettendo quindi in modo indiretto i panni dei piccoli investitori) attraverso i quali generare una rendita per il futuro. Se il prezzo dei titoli dei bond governativi e di quelli privati crolla e i titoli vengono venduti e non mantenuti fino alla durata naturale sul mercato secondario, i piccoli investitori contabilizzeranno una perdita. Per quanto riguarda invece i prestiti e in particolare i mutui, sui tassi fissi in essere l’aumento della spread non avrà nessuna conseguenza. Qualche difficoltà – ma non a breve – potrebbe invece interessare i mutui variabili, che sono quasi tutti ancorati al tasso Euribor a uno o tre mesi, i cui valori sono sotto zero ormai da quasi due anni. Se però l’Italia creasse un contagio a livello europeo e i parametri ricominciassero a salire, l’aumento della rata sarebbe sensibile. Nell’autunno del 2008 l’Euribor a tre mesi toccò il 5,5%. Per chi invece deve sottoscrivere un nuovo mutuo, è ipotizzabile un aumento dei costi iniziali, visto che le banche dovrebbero trovare ulteriori entrate, essendo più in difficoltà a finanziarsi, e dello spread bancario, soprattutto sui mutui fissi, per i quali negli ultimi anni sono stati applicati costi molto bassi. Nel “terribile” 2011, le rate salirono del 4%, senza considerare la stretta alle erogazioni che si riverberò sulle altre condizioni per ottenere un finanziamento. Naturalmente, oltre ai mutui, tra le conseguenze di una febbre da spread ci sarebbe da mettere in conto anche l’aumento delle rate dei prestiti e dei finanziamenti.

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