LETTERATURA Tobino, la poesia nel silenzio dei «matti»

A trent’anni dalla scomparsa di Mario Tobino, poeta precocissimo e narratore di sicura qualità, ma soprattutto primario e direttore per quarant’anni del manicomio di Maggiano presso Lucca, torna in libreria il suo primo romanzo, Il figlio del farmacista, pubblicato dalle Edizioni di Corrente nel 1942, che la rinnovata Vallecchi ripesca dal suo antico catalogo e affida all’introduzione di Giulio Ferroni (pagine 96, euro 14,00), riproponendo la versione a sua stampa del 1966 curata da Gina Lagorio. Un particolare interessante: l’introduzione che Tobino preparò per la ristampa del 1963 non fu mai pubblicata ma sostituita da quella assai più breve che ora ritroviamo qui. In quelle pagine, che abbiamo finalmente letto nella nota al testo inclusa nel

Meridiano che fu dedicato a Tobino nel 2007 per la cura di Paola Italia, possiamo forse trovare una battuta che può valere da motto araldico del libro: «I giovani ci sono stati anche sotto il fascismo». Già, la bella gioventù: che, come scrisse lo stesso Tobino nella già citata introduzione del 1963, resta «un mistero, non domanda nulla, vuole solo camminare nel mondo». Non si ripeterà qui quanto persuasivamente già scrive Ferroni circa «il gioco di sdoppiamenti e variazioni di punti di vista tra la prima persona del narratore e la terza persona del figlio del farmacista». Né si starà a registrare il moltissimo che trapassa dalla vita del medesimo Tobino a quella del protagonista del libro: gli anni smemorati nell’amatissima Viareggio in un tempo in cui era soltanto una piccola città di pescatori; la cruciale presenza del padre; gli studi universitari a Bologna e una laurea in medicina conseguita negli anni del trionfo del fascismo; l’approdo lavorativo in manicomio; ma, soprattutto, l’amore debordante e condizionato per la poesia. Ciò che invece si deve sottolineare è la grande contiguità tra l’ultimo capitolo del romanzo, Del perché del manicomio, e Le libere donne di Magliano (1953), in cui i pazzi sono finalmente restituiti nella loro realtà viva, opera meditata a lungo e preparata da tanti anni di appunti e riflessioni, la quale ottenne una recensione entusiasta del decano dei critici, l’autorevole Emilio Cecchi, regalandogli il successo e la giusta fama.

Proprio in quest’ultimo struggente capitolo Tobino pare definire una sorta di oroscopo su sé stesso come narratore, enunciando tempestivamente in modo chiarissimo la sua concezione del mondo e il suo sentimento dell’esistenza, sempre nutriti dalla vena rorida della poesia. È buio e lo scrittore è chiamato a visitare «un giovane matto». Di ritorno a letto, camminando per la campagna dentro il silenzio d’una «serena notte di diamanti non comparabili», il figlio del farmacista risponde «con un brillio degli occhi alla voce dei grilli, al tentennare degli esili steli, all’inseguirsi semplice e snello delle arcate del lunghissimo porticato». È la poesia, niente altro che la poesia: «nella poesia la vita essendo bella in ogni luogo e quindi anche in manicomio». Non si finirà mai di santificarne il ruolo nelle sue pagine, quando è vero che proprio attraverso di essa lo scrittore può farsi molecola riflettente l’intero universo, nonché la sua clamitante e clamorosa bellezza.

Scrittore della gioia di vivere Tobino. C’è forse un altro soltanto, nel Novecento italiano, che riesca a dire “io” con più gioia di quanto non faccia lui: Mario Soldati.

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