L’insegnamento è un ambito dell’educazione. L’educazione abbraccia la vita. La vita è intera e universa.
C’è un’armonia possibile a cui le cose tendono, una pienezza inscritta in ogni fibra dell’universo. Le cose dell’universo nascono piccole e tendono alla loro pienezza, che Dante identificava nella gloria di colui che “tutto move” che penetra e risplende più in una parte e meno altrove secondo la scala dell’essere del creato.
In questa “scala dell’essere” alcune cose crescono per una loro interna potenza, una verità che procede intrepida e che nel suo splendore è fonte inesausta di stupore: nel movimento migratorio di uccelli, nella geometria dei petali della rosa e delle orbite celesti. Altre cose, chiamate uomini, crescono con quella stessa potenza interna, ma il loro tendere non si esaurisce in questo.
I livelli non sono tra loro separati, ma come cerchi concentrici si trovano a diverse profondità, simili a una spirale. Il più profondo è quello in cui alberga la trascendenza che l’uomo da solo non può darsi, ma a cui tende ogni elemento degli altri livelli: il terribile dono della libertà dà la possibilità di scegliere tra l’orgoglio dell’auto-trascendersi o l’accettazione della vita da altro.
Su questi tre livelli (corpo, anima, spirito) si gioca l’educazione integrale dell’uomo, anche se l’uomo, ferito dal male, possiede questa armonia non in equilibrio: essa quindi va curata, rafforzata, indirizzata, educata.
Se educare oggi sembra impossibile, la motivazione non va cercata nei tempi, ma nella carenza di pensiero: “nos sumus tempora” (noi siamo i tempi) diceva Agostino, perché solo nell’uomo e nella sua profondità si dà tutto il tempo (passato, presente e futuro). Abbiamo perso o confuso la verità sull’uomo e i suoi livelli di esistenza, come dimostra il moltiplicarsi e perdersi in mille pedagogie oscillanti tra addestramento (ad azione reazione) e razionalismo meccanico (se riempio la testa allora funzionerà). Lo ha detto in maniera chiara e semplice una donna che san Giovanni Paolo II nel 1998 – non a caso – ha scelto come patrona d’Europa, in un libro significativamente intitolato «Vita come totalità»: «L’insegnamento non è che una parte dell’educazione, particolarmente dell’intelletto. Ma col termine educazione intendiamo la formazione dell’essere umano nel suo complesso, con tutte le sue forze e tutte le sue capacità. Cos’altro vogliamo aggiungere coll’educazione se non che il giovane che ci è affidato divenga un essere umano vero, autentico e autenticamente se stesso (tale quale Dio prescrive all’uomo di essere e questo sia nel senso generale della natura umana quanto in quello particolare della personalità individuale). Come conseguire però questo fine? L’educatore deve possedere un’opinione chiara e un giudizio vero riguardo a in che consista l’educazione, cioè l’autentica natura umana e l’autentica individualità… Formare esseri umani autentici significa formarli ad immagine di Cristo, ma per farlo l’educatore deve essere lui stesso un essere umano autentico» (Edith Stein).
Non basta portare a pienezza la natura umana, che non si dà separata dal concreto vivente, ma occorre portare a pienezza quel concreto vivente, dotato di natura umana. Ma la pienezza può essere raggiunta come fine solo se è chiaro quale sia tale pienezza realizzata in quell’uomo e in quella donna, per questo ancora Giovanni Paolo II scriveva che «l’uomo è via della Chiesa», perché è nella molteplicità del suo camminare nel mondo, cioè nella sua unicità, che l’uomo va accompagnato su quella strada che è sua e solo sua, ma che porta alla pienezza inscritta nel progetto che dall’eternità Dio ha su di lui, perché l’uomo faccia dono agli altri uomini di quel progetto.
Come dice la Stein, solo l’autenticità del vivere stesso dell’educatore riesce a educare, altrimenti educheremo secondo una parzialità che è già in noi e che prima dobbiamo superare in noi. Senza una chiarezza di idee sull’uomo e senza l’autenticità personale (che non è essere risolti, ma aperti) finiremo con l’improvvisare (in-pro-videre): cioè non saremo pro-videnti, non vedremo in anticipo e da lontano, e quindi non saremo prudenti (sempre dal verbo pro-videre), cioè non sapremo trovare soluzioni adeguate al singolo uomo e alla singola situazione, alla luce di una chiarezza di fondo sulla persona umana e i suoi livelli di esistenza.
Basti pensare che a scuola educhiamo prevalentemente con il sistema degli errori. Il cogito, come una macchina, sbaglia, viene ripreso, si corregge. L’errore invece è parte del percorso della vita, va integrato anch’esso. Quando facciamo complimenti per i punti di forza di uno studente, più che sull’errore commesso? Quando disponiamo i banchi in modo che si abbia l’impressione che il sapere si condivida come in un “convivio” e non sia invece addestramento a obbedire? Quando troveremo un modo di interrogare rispondente alla persona (soggetto di relazioni) anziché all’individuo (magazzino di nozioni)? Le pratiche relative a una antropologia equilibrata ed equilibrante sono un terreno fecondo da esplorare, migliorare o ripensare.
Noi se non siamo consapevoli del progetto intero che è l’uomo, operiamo secondo schemi non frutto di riflessione, ma di “luoghi comuni”. Finiamo con il fare “come hanno fatto con noi”: teniamo in piedi risposte a domande che non ci sono più, difendiamo mondi già tramontati, e rimaniamo frustrati. Non è che non sappiamo più educare, ma non accettiamo il rischio di educare, che è partecipare alla vita delle persone e non imporre formule che danno sicurezza (a noi più che ai ragazzi). Chi educa si comporta come i bastoncini che mia nonna poneva accanto alle piantine ancora fragili. Affianchiamo, non determiniamo, l’elaborazione dell’io, cioè la progressiva (ma non lineare come una pianta, perché le piante e gli animali vivono solo nel presente, mentre la profondità dell’uomo si estende nel passato e nel futuro) appropriazione di un io a partire da un sé dato, che non può essere omesso o dimenticato, altrimenti si cade nell’idea meccanicistica e volontaristica di un io che si può costruire a suo piacimento, che è pura illusione, con conseguenti mancanze di equilibrio: squilibri.
Chi educa affianca la fioritura della natura umana (condivisa) e della specifica persona (con luci e ombre, con talenti e difetti). Il corpo ha bisogno di una cura lineare, anima e spirito no. Anche se parliamo sempre di maturazione: nel primo è progressiva, nei secondi va a salti e conosce progressioni e regressioni, a seconda di come la vita è interpellata dai fatti e dall’educazione. La vita nella sua molteplicità attiva livelli di profondità diversi di quel sé. Un educatore può prendersi cura dei vari livelli se li ha presenti e li coltiva in sé, altrimenti si appellerà a ricette che andavano bene ai suoi tempi o a ricette prese a prestito da concezioni più o meno adeguate alla pienezza del concreto vivente. Basti pensare, come piccolo esempio, alle letture: di quale libro ha bisogno in questo momento questo alunno? Siamo sicuri abbia bisogno di quello che ho letto io alla sua età? Non sarebbe meglio una lista da cui scegliere?
È un compito che san Giovanni Paolo II aveva segnalato in modo chiaro, ma che forse dobbiamo ancora raccogliere nella sua pienezza, nella «Fides et ratio»: «Una grande sfida che ci aspetta è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge». Ciò può avvenire se l’educatore sa attingere nella sua vita a questo fondamento, perché poi sarà capace di coglierlo negli altri, nessuno ri-conosce ciò che non conosce: «Chi non incontra mai una persona degna d’amore, non può mai vivere le profondità nelle quali si radica l’amore» (Edith Stein, «L’empatia»).