L’episodio evangelico dell’incontro tra Cristo e la samaritana dall’esegesi antica alle letture moderne e contemporanee

Colei che fu creduta

di Lucetta Scaraffia

L’incontro di Gesù con la samaritana (Giovanni, 4, 5-42) è senza dubbio uno degli episodi più significativi dei vangeli per la ricca presenza di elementi simbolici: dal pozzo di Giacobbe, che rappresenta l’Antico Testamento, al simbolismo dell’acqua e alla definizione di fede come adorazione del Padre “in spirito e verità”. Proprio per questo i grandi commentatori della tradizione hanno tralasciato la riflessione sulla grandezza del messaggio d’amore contenuto nell’episodio, soprattutto per il fatto che la samaritana era una donna, e per di più una donna che non apparteneva al popolo ebraico. E che quindi Gesù, offrendo questi preziosi insegnamenti proprio a lei, segnalava un nuovo ruolo per le donne.
Sono state soprattutto le donne ad accorgersi per prime che si tratta di una donna vera e interessante. Se ne accorgono alla fine dell’Ottocento le figlie gemelle di un avvocato scozzese, entrambe vedove, Agnes Smith Lewis e la sorella Margaret. Affascinate dal moltiplicarsi dei ritrovamenti di testi biblici, le due sorelle divennero loro stesse orientaliste finché nel 1892 scoprirono in un palinsesto del iv secolo la Vetus Syra, cioè la più antica versione siriaca dei vangeli, e tornarono più volte nel monastero di Santa Caterina per completare il deciframento del codice detto appunto Siro Sinaitico. Nell’episodio della samaritana il manoscritto aggiungeva, rispetto al testo originale greco, che Gesù era in piedi, suscitando in Agnes una riflessione commossa: “Perché Nostro Signore era in piedi? Quando i discepoli lo avevano lasciato, stava seduto sull’orlo del pozzo; e sappiamo che era stanco. In ogni caso, l’orientale intento a insegnare sta normalmente seduto. E il comune orientale non si alzerebbe mai, di sua libera volontà, per cortesia nei confronti di una donna. (…) Mi è caro pensare che il suo grande cuore, pieno d’amore anche per i più umili fra gli esseri umani, lo rendesse superiore alle restrizioni proprie della sua razza e del suo tempo, spingendolo a dimostrare nei confronti del nostro sesso (…) quella cortesia che fra tutti i popoli veramente progrediti è considerata una manifestazione di vera e nobile virilità”.
La prima a segnalare la singolarità di questa presenza, però, era stata Teresa d’Avila, sempre molto consapevole della differenza femminile: “Ciò che mi sorprende è vedere come quella gente abbia creduto a una donna, e a una donna che non doveva essere di nobile condizione, perché andava ad attingere acqua. Umile, sì, doveva essere, perché quando il Signore le palesò i suoi peccati, non solo non se ne offese, come si farebbe oggi nel mondo dove la verità è difficilmente ascoltata, ma rispose che egli doveva essere un profeta. (…) Fatto sta che fu creduta” (Pensieri sull’amore di Dio). Teresa aveva incontrato molti problemi a farsi ascoltare con autorevolezza, quindi per lei si trattava di una questione non secondaria.
Sono stati in seguito gli studi di teologhe e di femministe che hanno aperto una nuova lettura della samaritana come donna, all’interno di un più vasto interesse per le donne nei vangeli. È avvenuto così che soprattutto nella seconda parte del Novecento si è sottolineato che le donne protagoniste di incontri decisivi con Gesù erano tante, e in larga maggioranza “irregolari”, cioè impure secondo la tradizione ebraica o perché peccatrici o perché affette da una malattia che le rendeva impure, come l’emorroissa. Anche la samaritana è impura: non è giudea, appartiene a un popolo disprezzato dagli ebrei, ed è peccatrice, come Gesù le ricorda, alludendo ai suoi cinque mariti. Eppure Gesù la coinvolge in un dialogo profondo e decisivo, che verte sulla fede e sul modo di adorare Dio. Addirittura, come ha rilevato in un’omelia Benedetto xvi, “le confidò – cosa rarissima – di essere il Messia”. Gesù non parla di questi problemi con i teologi, ma con una donna che gli risponde con prontezza e anche un po’ di impertinenza, una donna con la quale, secondo le convenzioni, non avrebbe neppure dovuto parlare.

(©L’Osservatore Romano 7 giugno 2013)