L’epidemia da Covid 19 e la società globale del rischio

di: Domenico Marrone
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Diritti, rischi e incertezza della scienza

L’epidemia da Covid 19 ci pone di fronte una realtà che, fin ora, avevamo fatto in modo di non vedere: viviamo in quella che il sociologo tedesco Ulrich Beck chiama la “società globale del rischio”. Una società in cui, anche per effetto delle conseguenze indesiderate dell’azione umana, si moltiplicano i rischi, rispetto ai quali le nostre conoscenze sono insufficienti.

L’epidemia da Covid 19 e la società globale del rischio

Se la “società globale del rischio” è il mondo in cui viviamo dobbiamo rassegnarci ad assistere ad un processo di strutturale restrizione delle nostre libertà oppure possiamo cercare di adeguare ai caratteri dei tempi presenti le istituzioni e anche la cultura giuridica in modo da salvaguardare, per quanto possibile, i valori della nostra civiltà?

Di fronte a rischi globali bisognerà anche capire quale ruolo dare agli scienziati e agli esperti nel processo decisionale. Siamo esposti a molteplici fonti di rischio. Possiamo scegliere tra più rischi decidendo di limitare al massimo uno a costo di espandere i rischi che sono aggravati dal divieto.

Possiamo pure cercare un bilanciamento dei rischi, dando la prevalenza all’esigenza di contenere quello che viene percepito come il rischio più grave senza arrivare all’espansione eccessiva di altri rischi.

Quello che probabilmente è cruciale per la tutela delle nostre libertà è la trasparenza del processo decisionale e la motivazione della scelta. Bisogna dire quali sono esattamente i rischi che si hanno di fronte, che tipo di equilibrio creare tra gli stessi, cosa si vuole tutelare, motivarne le ragioni.

Ragioni che in questo, come in tanti altri casi che si verificano nella società globale del rischio, si prestano ad un’analisi di tipo tecnico-scientifico. L’epidemia si combatte grazie alla scienza. Sono virologi, epidemiologi, e tanti altri scienziati e medici che ci possono dire cosa fare.

Certamente le conoscenze scientifiche sono incomplete, ma comunque soltanto il sapere tecnico-scientifico che gode di maggior consenso nella comunità scientifica internazionale può indicare cosa fare.

Le limitazioni delle nostre libertà e quindi le scelte su come gestire i rischi dovranno essere collocate all’interno di un processo decisionale in cui sia istituzionalizzato e ben visibile il ruolo degli scienziati e degli esperti.

Affiorano prepotentemente degli interrogativi: fino a che punto l’emergenza può giustificare la limitazione dei diritti fondamentali? C’è un diritto alla salute in grado di prevalere su qualunque altro?

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Pandemia e libertà individuali

Una limitazione così forte dei diritti costituzionali può essere accettata soltanto per un tempo limitato. La costrizione imposta alle nostre libertà con la perentorietà della formula “state a casa”, individuata come fondamentale mezzo di tutela della salute di ciascuno e di tutti, non può non assumere carattere eccezionale, così che il venir meno della sua essenzialità una volta azzerato o circoscritto il pericolo del contagio varrà immediatamente a deprivarla di ogni legittimazione giuridica e consentirà di riespandere automaticamente il regime di ordinaria legalità.

È questo un passaggio ineludibile perché i fondamenti democratici del nostro ordinamento rimangano intatti. Il successivo percorso verso la normalità, che non sarà breve e che certamente richiederà gradualità ed attenta modulazione degli interventi, potrà essere gestito attraverso i tradizionali strumenti legislativi ed organizzativi[1].

Il nostro far parte di una società globale del rischio ci imporrà d’ora in poi di attrezzarci a gestire i pericoli e le insidie della globalizzazione garantendo un livello accettabile di tutela ai diritti fondamentali nel rispetto delle norme costituzionali, della normativa europea e delle convenzioni internazionali.

Non è possibile comprimere sine die fondamentali diritti della persona in base a un generico principio di precauzione idoneo, in quanto tale, a prevalere assiomaticamente su qualsiasi istanza concorrente. Conferire autonoma dignità giuridica alle esigenze della precauzione porta con sé il rischio di dare prevalenza, sempre e comunque, alle ragioni dell’emergenza, bloccando qualsiasi attività umana sino a che non vi sia una qualche certezza intorno allo stato di salute collettivo. Un risultato simile, nella odierna società del rischio, è pressoché impossibile da raggiungere; lo stesso giudizio di proporzionalità delle misure va necessariamente incontro ad esiti diversi qualora mutino le proprietà rilevanti dell’emergenza[2].

La Corte costituzionale, in una importante sentenza di quale anno fa sul caso ILVA, ci ha ricordato che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (…). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Queste affermazioni, pronunciate allora per postergare il diritto alla salute al diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica, vanno tenute a mente oggi[3].

Nella nostra Costituzione non esiste una rigida e aprioristica gerarchia dei valori. L’equilibrio tra interessi e diritti costituzionali è mobile e storicamente situato, ed è l’esito di plurimi processi di integrazione politica. Oggi l’equilibrio arride al diritto di salute; domani, appena le condizioni fattuali lo consentiranno, l’odierno assetto di interessi dovrà necessariamente cambiare. Il nostro ordinamento non conosce una generale gerarchia dei valori costituzionali.

Il diritto alla salute è il solo diritto che il Costituente ha definito come fondamentale. Ed è significativa la formulazione in termini negativi dell’inciso dell’art. 32 secondo il quale la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: nel porre quel limite inderogabile ad ogni intervento normativo in tema di sanità il Costituente evoca chiaramente il principio di dignità, con un implicito bilanciamento di valori che non ammette alterazioni. Il rispetto della persona umana e della sua dignità si pone come valore non suscettibile di bilanciamento e come limite estremo dell’esercizio del potere.

Il diritto alla salute di per sé non è in grado di prevalere su qualunque altro diritto. Nella situazione attuale a me sembra che in realtà venga in questione il diritto alla vita, più che il diritto alla salute, e questo sì forse è un diritto che potremmo considerare “tiranno”, nel senso che è in grado di prevalere su qualunque altro.

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Ma ovviamente per stabilire se è o meno giustificato il sacrificio di un diritto fondamentale richiesto per garantire la vita non basta considerare in astratto il valore dei due diritti da bilanciare, perché anche se il sacrificio è richiesto in presenza di un pericolo per la vita di una o più persone occorre chiedersi qual è la consistenza del pericolo, se il pericolo può essere altrimenti evitato e se il sacrificio è proporzionato al pericolo[4].

Il principio di precauzione

“Le autorità chiamate a prendere decisioni per fronteggiare rischi sanitari ed ambientali talvolta si trovano di fronte a situazioni nelle quali i dati scientifici disponibili sono contradditori oppure quantitativamente scarsi: può essere opportuna allora una valutazione ispirata dal «principio di precauzione», che non comporta una regola da applicare, bensì un orientamento volto a gestire situazioni di incertezza. Esso manifesta l’esigenza di una decisone provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze che vengano eventualmente raggiunte. La decisione deve essere proporzionata rispetto a provvedimenti già in atto per altri rischi. Le politiche cautelative, basate sul principio di precauzione, richiedono che le decisioni siano basate su un confronto tra rischi e benefici ipotizzabili per ogni possibile scelta alternativa, ivi compresa la decisione di non intervenire. All’approccio precauzionale è connessa l’esigenza di promuovere ogni sforzo per acquisire conoscenze più approfondite, pur nella consapevolezza che la scienza non può raggiungere rapidamente conclusioni circa l’assenza di rischi. Le circostanze di incertezza e provvisorietà rendono particolarmente importante la trasparenza nel processo decisionale”[5].

Il principio di precauzione è destinato a crescere di importanza nella società del rischio. Se un comportamento porta con sé il rischio di una conseguenza dannosa, l’attività va vietata. Tutto ciò è apparentemente molto persuasivo e può fare facilmente breccia nel nostro animo turbato da un’epidemia che minaccia la vita nostra e dei nostri cari. Se, però, nonostante il turbamento emotivo che tutti ci coinvolge, guardiamo al problema con più calma e attenzione vediamo che la questione è più complessa e che diversi sono i valori in giuoco[6].

Certamente non vogliamo privarci del PP e non vogliamo rinunciare alle garanzie che offre a fondamentali valori, come la tutela della salute e dell’ambiente. Ma questo non può impedirci dal vederne le ambiguità o, se si preferisce, la complessità.

Il costituzionalista americano Carl Sunstein, che ha dedicato al tema uno studio approfondito[7], ci dice che il principio di precauzione è paralizzante perché, in buona sostanza, imponendo il divieto di una determinata attività porta con sé altri rischi che derivano proprio dal mancato svolgimento di quella attività, per impedire i quali bisognerebbe invece consentirla. Allora cosa fare? Quale rischio consentire? In base a quali criteri e procedure effettuare la scelta?

Capire ed interpretare il principio di precauzione è compito di ogni credente, di ogni cristiano, di ogni uomo. Prima ancora di lasciarsi andare a ermeneutiche tipiche di apologeti e polemisti d’altri tempi, è necessario fare chiarezza su questo principio.

Se vogliamo chiederci cosa può proporre oggi la tradizione etico-teologica cattolica al mondo secolare sui problemi legati al principio di precauzione forse vale la pena ritornare un pochino più indietro e guardare con occhi un po’ più simpatetici alla tradizione della casistica che molti di noi avevano messo nel cassetto, in soffitta o persino nel cestino.

Ci rammenta un’altra tradizione, quella del probabilismo, cioè un richiamo indiretto al fatto che ci troviamo di fronte a situazioni in cui c’è una specie di doppia insicurezza: l’insicurezza di come stanno le cose a livello empirico e di quello che si debba fare a livello normativo. Quindi una incertezza sulle conseguenze che possono avere certi nostri interventi e una insicurezza sul valore stesso delle norme che noi usiamo per poter risolvere questo dilemma.

A sfogliare i manuali di casistica con tutte le loro tendenze: del probabilismo, dell’equiprobabilismo eccetera, dal tardo ‘500 fino a metà ‘700, troviamo già questa problematica.

In fondo se scaviamo nella nostra stessa tradizione non è la prima volta anche all’interno del campo, diciamo così che ci è specifico, della comunità di credenti della Chiesa cattolica, che ci si trova di fronte all’ insicurezza morale e questa insicurezza morale è doppia perché è una insicurezza che riguarda sia la connessione dei fatti, il loro succedersi, le loro conseguenze e anche l’insicurezza sulle norme che presiedono queste scelte.

Evidentemente i casuisti del ‘600 non pensavano né all’ambiente né alle rivoluzioni tecnologiche, né alle pandemie ma l’hanno applicata ad altri campi. Penso però che sia interessante rammentare questa tradizione.

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Dietro gli esempi un po’ grotteschi raccontati sta una grande saggezza cioè la saggezza del dire come si deve agire moralmente quando le conseguenze dei propri atti non sono conosciuti ma sono solo probabili. Quindi una sapienza etica legata alla gestione di azioni di cui noi non conosciamo tutte le conseguenze e la domanda sulla validità delle singole norme quando queste norme a loro volta sono solo probabili e non sicure.

A quei tempi i due grandi fronti erano i lassisti e i rigoristi, che evidentemente si sono acerbamente combattuti, ma non è un caso che la linea che poi risultò vincente, attraverso soprattutto S. Alfonso de Liguori, era la linea intermedia. E questa linea intermedia era come una linea che faceva spazio sia all’insicurezza fattuale che all’insicurezza normativa.

In fondo quello che si è salvato della tradizione casistica è questo senso per l’insicurezza fattuale e normativa. Questa vicenda storica ha secondo me un valore esemplare ancora oggi. Evidentemente oggi non possiamo solo copiare, ma varrebbe la pena riesplorarla per vedere se applicata ai nostri problemi del rapporto uomo-natura possa ancora dirci qualche cosa.

Non possiamo ignorare che in questa situazione di emergenza sanitaria c’è un dovere di riflessione a approfondimento che deve far sudare “sette camicie” ai teologi e anche al Magistero ecclesiastico, quello della gestione etica responsabile del rischio che è per così dire una tematica veramente nuova. Infatti quella del rischio era una categoria in fondo ancora sconosciuta alla riflessione etico-teologica.

Ma torniamo al principio di precauzione. Hans Jonas sta un po’ all’origine della formulazione del principio di precauzione. La sua filosofia del principio responsabilità, l’opera fondamentale in cui lui pone questi interrogativi[8], è il tentativo di riformulare in fondo l’imperativo morale, l’imperativo categorico di Kant secondo nuove modalità e dicendo: agisci in modo che le tue azioni siano compatibili con la permanenza di vera vita umana sulla terra.

Hans Jonas ha scritto il suo libro come un contrappeso ai tre volumi del filosofo Ernst Bloch sul principio speranza[9]. Bloch che tenta di proporre all’uomo della fine del ventesimo secolo un’etica utopica dicendo: quello che ti deve guidare nell’azione è il principio speranza. Qualora la specie umana dimenticasse ogni forma di coartazione, di oppressione, di lotta di classe ecc., se si orientasse al principio speranza, viene la società senza classi. Di fronte a questa etica orientate in maniera esclusiva sul futuro Hans Jonas dice “no!”. No al principio speranza, e “sì!” al principio responsabilità. Hans Jonas ha dunque la tendenza a fare del principio di responsabilità una specie di immagine speculare o retro della medaglia di quello che era invece il principio speranza.

Bloch parte dall’idea che in linea di principio c’è un motore della storia per cui si va verso il bene, si va necessariamente verso il bene nonostante una moltitudine di cadaveri che si trovano sulla strada. Sembra sentire l’eco del mantra di questi giorni: “Andrà tutto bene”.

Allora di fronte a questo ottimismo così disarmante di Bloch, Hans Jonas risponde no; l’ipotesi catastrofista, la catastrofe è quello che di fatto ci aspetta se continuiamo ad agire così.

La tesi di Jonas è specularmente contraria a quella formulata da Bloch. E così per Jonas vale l’euristica della paura; cioè l’imperativo è di agire come se la tesi più catastrofica fosse la più reale. Agisci in maniera tale da partire sempre dal principio che la catastrofe è sicuramente la possibilità, la più reale, non la più probabile, ma la più reale.

Pur ammettendo la tesi di Jonas a titolo provvisorio, rimane il problema della democrazia. Rimane il problema che una simile posizione deve poter avere l’accordo dei cittadini, altrimenti l’alternativa è quella di un paternalismo di stato, o di una “scienzocrazia”.

Rimane dunque il fatto che qualsiasi sia il tipo di soluzione che vogliamo proporre a questi dilemmi, è una soluzione che devono passare anche il test della democrazia. Pensare di poter proporre l’euristica della paura come criterio di scelte politiche a chi attualmente ha delle responsabilità di Governo dicendo: se per caso tu non riesci ad ottenere una maggioranza in Parlamento per queste misure falle comunque perché è meglio in ogni caso una presa di posizione di tipo dittatoriale o comunque di tipo non democratico ma scientificamente corretta piuttosto che una decisione di tipo democratico: qui abbiamo un nodo che sicuramente va risolto.

Va altresì notato che il principio di precauzione, secondo la sua formulazione classica, non distingue a sufficienza tra pericolo e rischio. Molto probabilmente questa distinzione è difficile anche da implementare o da far passare nell’opinione pubblica.

Bisogna distinguere poi anche tra rischio fattivo e il rischio potenziale. In alcuni casi il rischio è in parte quantificabile ed in alcuni casi invece è puramente potenziale. Le misure da prendere nei confronti dei rischi fattivi sono diverse da quelli da prendersi nei confronti dei rischi potenziali.

Principio di precauzione e incertezza della scienza

Con l’espressione “incertezza della scienza” si fa allusione a varie forme di indeterminazione del sapere in campo scientifico: la complessità delle conoscenze, la mancanza o l’insufficienza di dati, l’imprevedibilità degli esiti, il carattere stocastico delle previsioni in molti settori di indagine scientifica[10].

Ciò significa che sempre più spesso e in ambiti numerosi la comunità scientifica, chiamata a pronunciarsi in relazione a una questione di scienza che esiga regolazione normativa, non sia in grado di esprimere una posizione certa e univoca, ma presenti una varietà di tesi disparate o parzialmente divergenti. Il carattere sempre aperto del cammino scientifico rappresenta certamente un tratto definitorio di esso, ma la complessità di alcuni campi di ricerca ha radicalizzato tale carattere verso forme di indecidibilità.

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Questa incertezza della scienza rende particolarmente delicata la posizione di chi, investito del compito di intervenire giuridicamente e trovandosi di fronte a una pluralità di descrizioni e previsioni eterogenee, debba scegliere la tesi da privilegiare in via normativa.

Secondo Smith e Wynne[11] l’ignoranza può assumere quattro differenti connotazioni: rischio, incertezza, ignoranza, in senso proprio, e indeterminatezza.

Nel caso di decisione in condizioni di rischio, le variabili caratterizzanti un problema sono conosciute e la probabilità rispettiva di esiti differenti, positivi e negativi, è quantificata.

Nell’ipotesi di decisione in condizioni di incertezza, invece, pur essendo noti i parametri di un sistema, l’incidenza quantitativa dei fattori in gioco non è nota, e dunque si ignora la probabilità di un evento.

Una diversa definizione qualifica l’incertezza come “probabilità del secondo ordine”, nel senso che, mentre in caso di rischio si può quantificare la probabilità di un evento, nell’ipotesi di incertezza si possono solo quantificare le probabilità relative di valutazioni alternative di rischio.

Venendo poi all’ignoranza in senso stretto, questa è definita come l’insieme dei dati non disponibili, la cui acquisizione consapevole – vale a dire la consapevolezza dell’ignoranza – è subordinata alla scoperta di nuovi elementi conoscitivi.

L’indeterminatezza, infine, è il concetto che riassume il carattere tendenzialmente aperto e condizionale di ogni conoscenza, in particolare la sua valenza contestuale e la sua determinabilità socioculturale.

Ma la complessità della visione attuale del sapere scientifico si collega anche a fattori soggettivi, vale a dire al riconoscimento del carattere non neutrale dei giudizi scientifici. Le componenti valutative che possono intervenire nei giudizi scientifici sono stati distinti da Shrader-Frechette in tre categorie: valori pregiudiziali (bias values), valori contestuali (contextual values) e valori costitutivi o metodologici (constitutive or methodological values).

I bias values si hanno quando gli scienziati che formulano il giudizio scientifico omettono dati o li intendono deliberatamente in modo scorretto, per forzare un’interpretazione; ma, secondo l’Autrice, nelle valutazioni scientifiche queste posizioni unilaterali sono facilmente individuabili ed eliminabili.

I contextual values includono le preferenze personali, sociali e culturali che, forse in modo meno evidente ma pur sempre pervasivo, orientano un giudizio, facendo prevalere alcuni valori su altri.

Infine, i constitutive values sono i più difficili da evitare, poiché riguardano il favore riconosciuto dagli scienziati a certe teorie o regole metodologiche piuttosto che ad altre[12].

I tecnici delle valutazioni devono esprimere giudizi sui dati da raccogliere; devono scegliere come ridurre miriadi di fatti a modelli maneggevoli; devono operare estrapolazioni da situazioni conosciute a fatti ignoti. Tali operazioni non sono mai neutrali e univoche, ma sempre orientate da valori e scopi.

Si tratta del passaggio da una visione acritica del sapere scientifico, assunto come oggettivo e scevro da incertezze, a una posizione consapevole della non-neutralità delle proposizioni scientifiche.

Tradizionalmente, le due opposte tendenze che hanno dominato il panorama teorico dell’analisi dei rischi sono state: la posizione che, giudicando irrazionali le paure del pubblico, ritiene che solo i tecnici possano fornire valutazioni di rischio obiettive e affidabili; e la teoria che, al contrario, sostiene che soltanto il pubblico, direttamente toccato dai rischi, possa e debba valutarne l’accettabilità.

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La prima, di orientamento epistemologico neo-positivista, considera la valutazione di rischio un giudizio interamente oggettivo, neutrale ed esente da valori (value-free), e ritiene irrilevanti i rischi inferiori a un certo livello di probabilità. Tale prospettiva giudica del tutto irrazionale che il pubblico possa accettare un rischio ad alta probabilità e rifiutarne uno a bassa probabilità (per esempio la probabilità di un incidente automobilistico rispetto ad uno aereo); e trascura l’ipotesi che tale scelta possa dipendere da un sistema personale di valori, che si distacchi da una predefinita oggettività.

L’altra posizione, in linea con un estremo relativismo culturale e un anarchismo epistemologico, afferma che i rischi sono solo costrutti sociali: ogni concezione della vita può avere proprie giustificazioni e i rischi che ognuno decide di accettare non possono essere valutati in base a un’astratta accettabilità. Questo punto di vista riduce i rischi effettivi alla percezione di essi. Entrambe le concezioni risultano piuttosto insoddisfacenti.

Ciò che qui è importante osservare è che sia la prospettiva scientista sia la prospettiva irrazionalista sui rischi conducono facilmente a esiti politici autoritari. La prima, infatti, si associa a una prospettiva tecnocratica in cui la decisione spetta unicamente agli esperti. La seconda, apparentemente più democratica – nel senso tradizionale di scelta maggioritaria – può comunque avere esiti autoritari, affidandosi esclusivamente a una volontà politica sganciata da giustificazioni di tipo razionale (un puro volontarismo politico). Entrambe le prospettive, di fatto, si muovono nell’alternativa conoscenza o irrazionalità, il modello secondo cui fuori dalla conoscenza certa esiste solo l’opinabilità e la pura preferenza istintiva.

Il palesarsi di rischi e incertezze collegati all’implementazione sociale della scienza deve tener conto di una duplice esigenza. In primo luogo la necessità di estendere la consultazione con gli scienziati, laddove emergano divisioni di opinione circa il possibile verificarsi di eventi potenzialmente dannosi; in secondo luogo, l’opportunità di coinvolgere maggiormente i cittadini in decisioni a base scientifica, ma che toccano direttamente la società civile.

La nomina degli esperti, l’istituzione e il funzionamento dei comitati scientifici e tecnici, e il sapere scientifico stesso, essendo considerati espressione di un metodo oggettivo e certo, non sono ritenuti materia rilevante e problematica dal punto di vista della tutela che lo Stato offre ai cittadini.

La necessità di introdurre specifiche garanzie e diritti, come anche di promuovere una maggiore partecipazione democratica della società civile, riguarda oggi specificamente la regolazione della scienza, ambito in cui finora l’estraneità dei cittadini è stata pressoché totale.

Questa visione del rapporto tra scienza e società non disconosce il carattere privilegiato del linguaggio scientifico. La scienza può dire una parola particolarmente autorevole, ma non ha il potere di pronunciare la parola esclusiva o definitiva sulle scelte sociali.

Pur essendo indispensabile una valutazione scientifica quanto più completa possibile, giudicare quale sia il livello di rischio accettabile per la società costituisce una responsabilità eminentemente politica. Nella nostra situazione di emergenza sanitaria la politica si è limitata a recepire tout court il dettato della scienza o ha assunto in proprio la responsabilità decisionale?

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Si devono stabilire le condizioni di accreditamento pubblico dei diversi saperi; si devono individuare le forme di controllabilità pubblica di tali conoscenze, i differenti presupposti metodologici e assiologici che ne ispirano il funzionamento; nessuna forma di sapere può essere fatta valere unicamente in base a una predefinita validità- verità.

In questo senso il governo della scienza è un problema di democrazia: qui il termine democrazia non allude al prevalere di una maggioranza, bensì al carattere aperto e non-autoritativo di nessun linguaggio (nemmeno quello della scienza). Ogni decisione sociale deve essere filtrata in sedi molteplici e attraverso una pluralità di conoscenze, confronti e negoziazioni. Sarebbe riduttivo interpretare tale posizione come anti-scientifica.

Si tratta invece di favorire una comprensione più approfondita dei complessi legami tra scienza e società (e della società fa parte anche la Chiesa), individuando modalità e procedure più adeguate nella determinazione delle scelte scientifiche e delle decisioni che riguardano la società. Non si tratta di assecondare pulsioni rivendicazioniste da parte di settori della società (e quindi anche da parte della Chiesa), ma di non abdicare a responsabilità che competono agli individui e alle diverse compagini della comunità civile, al di là di ogni paternalismo statale o scientifico.


[1] Cf. G. Luccioli.

[2] G. Pitruzzella.

[3] Cf. C. Caruso.

[4] Cf. G. Lattanzi.

[5] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 469.

[6] Cf. A. Bondolfi, Il principio di precauzione e la Dottrina Sociale della Chiesa, in “Notiziario CEI 2/2006, 109-124

[7] Cf. Carl Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, Il Mulino, Bologna 2010.

[8] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2002.

[9] Cf. E. Bloch, Il principio speranza. Milano: Garzanti ed. 2005.

[10] Cf. M. Tallachini, Principio di precauzione: epistemologia e diritto, in “Notiziario-CEI 2/2006, pp. 125-140.

[11] R. Smith, B. Wyne (eds.), Expert Evidence: Interpreting Science in the Law, London, Routledge 1989; B. Wyne, Uncertainty and Environmental Learning: Reconceiving Science and Policy in the Preventative Paradigm, «Global Environmental Change» 1992, June, pp.111-127; cfr. anche J. HUNT, The Social Construction of Precaution, in T. O’Riordan, J. Cameron (eds.), Interpreting the Precautionary Principle, London, Earthscan 1994, pp.117-125.

[12] K.S. Shrader-Frechette, Risk and Rationality, cit., p.41: «Even collecting data requires use of constitutive value judgments because one must make evaluative assumptions about what data to collect and what to ignore, how to interpret the data, and how to avoid erroneous interpretations». (settimananews)