Le religioni devono dare un messaggio di pace

di Sergio Casali

Nel corso della guerra in Bosnia ha subito tre attentati. Non ha mai abbandonato la capitale assediata, passeggiando in mezzo alla sua gente. Eppure il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Vrhbosna, Sarajevo, non ha l’atteggiamento dell’eroe. Sorride, ricordando quegli anni terribili, ma con grande serietà manda un messaggio alla politica e alla comunità internazionale: “Questa città è stata ferita dalla sete di potere, non dalla religione: le religioni, invece, possono cambiare le regole del gioco e dare un segnale di unità al Paese e a tutto il mondo”. È anche per affermare questo ruolo degli uomini di fede che il cardinale ha voluto ospitare nella sua diocesi il meeting “Vivere insieme è il futuro”, la preghiera per la pace che la Comunità di Sant’Egidio organizza ogni anno dallo storico incontro di Assisi voluto da Papa Giovanni Paolo ii nel 1986. A vent’anni dalla guerra che sconvolse la città, per la prima volta tutte le componenti religiose del Paese si riuniscono insieme; con loro i leader delle religioni mondiali, per pregare e discutere dei grandi temi di questo tempo. A inaugurare l’evento, un incontro storico: Irinej, il Patriarca della Chiesa ortodossa serba, ha visitato per la prima volta la capitale della Bosnia ed Erzegovina, presenziando alla messa di apertura, nella cattedrale cattolica, e intervenendo alla fine. È anch’essa una “prima volta”.

Qual è il significato di questa visita?

È stata una visita molto importante per dare un messaggio positivo a questo Paese. Ci unisce il Vangelo e il fatto che noi cristiani a Sarajevo siamo una minoranza. Il Patriarca è venuto per sostenere la Chiesa cattolica e io sono stato presente insieme agli altri cardinali nella chiesa ortodossa quando lui ha celebrato la liturgia, per dare un segno di vicinanza. Ha lanciato un appello: che mai sparisca, per le giovani generazioni, la presenza dei cristiani. Io vedo un bel messaggio per il futuro: bisogna cambiare l’opinione pubblica e i cristiani devono testimoniare l’unità. E per questo il gesto che ha fatto il patriarca Irinej ha un’importanza fondamentale.

La scelta di Sarajevo come sede del meeting interreligioso di Sant’Egidio è molto significativa, a vent’anni dall’inizio della guerra. È solo un simbolo o lei si aspetta qualche risultato concreto?

Il dialogo comincia con la preghiera. Questo è il primo passo per la pace: una comunità che prega per la pace. Ma poi c’è un secondo passo che è essere insieme. Quando ci incontriamo, quando siamo insieme è già un messaggio: tutti i rappresentanti delle religioni sono per la pace. Questo è un messaggio rivolto innanzitutto ai politici: bisogna cambiare le regole del gioco e le religioni possono contribuire, affermando i principi che possono costituire il fondamento morale dello Stato. Questi incontri servono per dare unità agli uomini di religione e aiutarli a dare un fondamento spirituale al vivere comune della gente. Creano speranza. Cambiano i cuori. Aprono la mente a quello che sembra impossibile.

Credenti di religione diversa e uomini e donne di cultura che si incontrano e dialogano. Ma alla radice di tutto una grande preghiera per la pace. Un’intuizione di Giovanni Paolo ii, rinnovata da Benedetto XVI. Papa Wojtyla aveva un rapporto di particolare vicinanza a questa terra e a lei personalmente. Voleva venire a Sarajevo durante la guerra. Nel 1994, nel pieno dello scontro, decise di crearla cardinale a soli 49 anni. Ha un ricordo particolare di questo legame?

Noi cattolici siamo molto grati al beato Giovanni Paolo II, perché era come un grande padre per noi: ha pregato, ha parlato con voce forte per la pace, ha fatto visita come pellegrino a questa terra. Quando è stato presente ha parlato in modo molto chiaro, come pastore, con tutti: con i cattolici, con i politici, con gli altri capi religiosi. Mi regalò un telefono speciale per essere in contatto. Per lui era un dolore e un amore speciali. E questo non lo possiamo dimenticare: questi segni che Papa Wojtyla ha lasciato a Sarajevo rimangono per me una strada per lavorare per la pace. Comunque lui era sempre molto vicino, perché conosceva la nostra situazione e voleva fare qualche cosa di concreto per la pace: non solo per i cattolici, ma per tutti. Ed era irritato perché riteneva che la comunità internazionale facesse poco per la pace nel nostro Paese.

Sono passati vent’anni dall’inizio della guerra. Il conflitto è durato quasi quattro anni: ne sono bastati sedici per rimarginare le ferite?

Grazie a Dio, dopo l’accordo di Dayton sono state rinnovate tante cose, come le case e le strade. Ma non è facile creare una pace stabile, perché l’accordo di Dayton fa tacere le armi ma non ricrea la fiducia, lascia le divisioni. Non crea condizioni giuste: Dayton divide la Bosnia ed Erzegovina in due parti e questo è un grande problema, soprattutto perché dopo questo accordo la comunità internazionale si è dimenticata di questo processo, si è lavata le mani, lasciando tutto in mano a politici locali. Il problema oggi è che le diverse comunità non hanno la possibilità di far valere allo stesso modo la loro voce e bisognerebbe fare pressione per creare uno Stato normale, in cui possiamo essere tutti uguali.

È un problema politico: le religioni possono avere un ruolo?

L’idea intelligente della Comunità di Sant’Egidio è proprio quella di riunire capi religiosi, non solo locali, ma anche internazionali, per lavorare sull’opinione pubblica e fare pressione sulla politica locale e internazionale. Mentre crea un clima favorevole, con una visione culturale più libera.

In un recente libro-intervista lei ha dichiarato che per sopravvivere alla guerra servono tre cose: la preghiera, la forza di volontà e la capacità di scherzare. Ricorda un episodio in cui emerge la fede, la tenacia e l’ironia degli abitanti di Sarajevo?

Non posso dimenticare un’immagine di quando eravamo nel pieno della guerra: una notte durante la quale ogni secondo cadeva una granata. Alla fine, sentivo di aver raggiunto i limiti di resistenza della mia mente: avevo paura e mi sembrava di impazzire. Subito, ho cominciato con i miei familiari che stavano in casa con me a pregare, e questa preghiera ha custodito il mio cuore e la mia anima. Da allora, anche quando, come pastore, ho fatto riunioni con i miei sacerdoti, durante gli attacchi più violenti continuavamo a parlare e a farci degli scherzi. Questo è molto importante quando hai una grande tensione: la tensione è pericolosa, mentre rilassarsi e ridere è un modo di sopravvivere in queste situazioni.

Vent’anni dopo la guerra, come può Sarajevo essere il futuro e non il passato d’Europa?

Oggi la convivenza di un tempo non c’è più, ma questo non dipende dal popolo, dipende dalla politica. Sta a noi di cambiare questa situazione e costruire, come dice il beato Giovanni Paolo ii, una città che sia un segno per tutta l’Europa. Non più un simbolo della divisione e della violenza, ma un paradigma di unità ed equità. Io penso che è possibile e bello lavorare e vivere per questo.

(©L’Osservatore Romano 12 settembre 2012)