Le domande di Gesù e le nostre

Un libro del monaco di Bose Ludwig Monti sulle domande di Gesù ci pone di fronte alla fatica di comprendere a fondo il mistero del Messia e, soprattutto, di saper attendere da Lui, con pazienza e fiducia, una risposta ai nostri interrogativi profondi

“Le domande veramente serie sono solo quelle che possono essere formulate da un bambino. Solo le domande più ingenue sono veramente serie. Sono domande per le quali non esiste risposta. Una domanda per la quale non esiste risposta è una barriera oltre la quale non è possibile andare”. Mi viene da citare Milan Kundera ne Linsostenibile leggerezza dell’essere per introdurre il libro su Le domande di Gesù del monaco del monastero di Bose Ludwig Monti (edizioni San Paolo). Perché dalle domande che l’autore, studioso di ebraistica con dottorato all’Università di Torino con Paolo Sacchi e autore di un apprezzatissimo Commento ai salmi (edizioni San Paolo), fa emergere dai vangeli a opera di Gesù risulta questa evidenza paradossale: le vere domande sono quelle che non hanno risposta. O, per lo meno, non immediata. Umberto Galimberti, autore a sua volta di una riflessione su Il segreto della domanda (edizioni Feltrinelli), parla di “radicalizzarla” perché “è meglio deludere l’attesa di una risposta immediata che isterilire una domanda, impoverirla, non tenerla all’altezza di ciò che si chiede”. La mentalità del consumo, invece, sembra avere inquinato anche la fonte da cui sgorgano gli interrogativi più profondi: si cerca la risposta, la soluzione a portata di mano, la più semplice e accomodante, ma che non è quasi mai quella vera. La risposta autentica è quella che ha dimensione del tempo, che non si brucia nell’attimo o si risolve nell’effimero, ma che richiede costanza, fatica e, per noi cristiani, permanenza nella sequela di Gesù. E’ lo stare dietro a Gesù che consente di entrare nel suo mistero di vita, prima, e di salvezza, poi. Non a caso la chiamata dei primi discepoli nel vangelo di Giovanni avviene in questo modo: “che cosa cercate?” chiede Gesù, e all’interrogativo su “dove abiti?” risponde: “venite e vedrete”. Ecco l’inizio della sequela che porterà quel “che cosa cercate”, ancora nella dimensione di un’aspettativa infra-umana, a “chi cercate”, conclusione e maturazione di una ricerca che individua proprio nella persona di Gesù la risposta alla sete di senso che abita nel cuore dell’uomo.

Monti conta nei Vangeli 217 domande da parte di Gesù, di cui la maggioranza (63) nel vangelo più breve che è quello di Marco. Molte di meno sono quelle ricevute (141). E’ interessante vedere anche queste ultime – le domande poste a Gesù – perché rispecchiano il nostro stesso modo di fare domande. Vi sono due categorie distinte: quelle rivolte dagli uomini religiosi (scribi, farisei, dottori della legge) e, quantitativamente molte di meno, quelle degli stessi discepoli. Le accomuna il fatto di essere domande «chiuse». I primi chiedono sempre conto a Gesù di comportamenti o affermazioni che confliggono con la loro visione religiosa e vengono poste in atto, il più delle volte, con finalità tendenziose, per indurlo a contraddirsi nella sua osservanza della legge. E’ il modo di domandare di chi vuole avere prima di tutto conferma delle proprie opinioni, di chi pretende di omologare alla propria visione del mondo quella degli altri. In definitiva, è la logica corrente delle approvazioni (i Like) nei social: mi piaci se la pensi come me, altrimenti pollice all’ingiù.

Poi ci sono le (poche) domande dei discepoli che nascono sempre da una reazione immediata ed emotiva a qualcosa che è successo e di cui non hanno afferrato il senso: che cosa volevi dire, come possiamo fare quello che ci chiedi (ad esempio, sfamare le centinaia di persone nella pericope della moltiplicazione dei pani). Oppure che derivano da una paura immediata, come sulla barca in tempesta: “Signore non ti importa che moriamo?” Mc. 4,38). «Sono sempre domande con un oggetto molto piccolo», osserva Ludwig Monti che incontro a Bose in una splendida giornata d’autunno, «Gesù invece con le sue domande apre a profondità di orizzonti sconfinati, ci porta a fare i conti con noi stessi».

Fare i conti con se stessi, però, è fare i conti con la propria morte. La difficoltà che i discepoli manifestano nel capire a fondo Gesù è quella di accettarlo non come il messia glorioso dell’aspettativa tardo-giudaica, ma come il messia sconfitto, sofferente adombrato nei canti del Servo in Isaia. Difficoltà di comprensione che fa sì, come sottolinea Monti nel libro, che i “discepoli più stanno vicino a lui meno capiscono”, come, ad esempio, quando li invita al rinnegamento di sé e preannuncia la propria passione. «La verità è che i discepoli non erano pronti ad accogliere un messia sofferente», osserva Monti. «Gesù li spingeva ad andare in profondità, guardando alle fatiche della vita, senza edulcorarla, e questo li spaventava. E’ significativo che all’inizio del vangelo di Marco si dica: “i discepoli lasciarono tutto e seguirono Gesù” mentre alla fine, al capitolo 14, Marco annota: “lasciarono Gesù e fuggirono tutti”. In Marco più che negli altri vangeli si vede la fatica del credere da parte dei discepoli».

Monti, a questo proposito, ha una sua lettura anche del grido di Gesù dalla croce in Marco e Matteo, unica domanda che egli rivolge direttamente a Dio Padre: Eloì, Eloì, lemà sabactàni che è una citazione dell’inizio del salmo 22. «Gesù incarna pienamente il salmo 22, che però, attenzione, alla fine si trasforma in una lode a Dio: Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea’. Gesù non abbandona il Dio che lo abbandona, nell’imprecazione non può rivolgersi se non a lui. L’espressione aramaica citata nel vangelo andrebbe forse tradotta con “a che scopo mi hai abbandonato?”. Quella di Gesù morente è piuttosto una richiesta ultima di senso all’offerta della sua vita sulla croce. E questo lo capisce molto bene il centurione romano che esprime la più autentica confessione di fede che si trova nei vangeli: “avendolo visto spirare così, disse: questi era veramente il Figlio di Dio”».

Il grande avversario della fede, quindi, non è tanto il dubbio, o l’ateismo, ma la paura della morte che conduce all’idolatria: è da questa paura che siamo spinti ad accumulare potere, ricchezza, che deriva la brama di soddisfare ogni desiderio in piaceri terreni. «Sono tutti modi per cercare di sfuggire alla morte» osserva ancora Monti. «Ed è una paura che si vince solo con l’amore. Penso alla conclusione del Cantico dei cantici: “mettimi come sigillo sul tuo braccio perché forte come la morte è l’amore”. Solo l’amore sta alla pari con la morte. E con il Nuovo Testamento addirittura la supera con la fede nella resurrezione».

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