LAVORO PRECARIO. Quale augurio per il 2013? Il 1° gennaio sarà una data amarissima per centinaia di migliaia di persone

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Il primo gennaio si rivelerà una data amarissima per centinaia di migliaia di italiani, precari senza più futuro nel posto di lavoro. Quando la crisi economica (ricordiamolo: siamo entrati nel sesto anno consecutivo di recessione) cominciò a mordere i polpacci delle aziende italiane, la prima cosa che quasi tutte fecero fu quella di tagliare i costi. I primi, i più rilevanti, furono quelli del personale “esterno”: collaboratori, fornitori di servizi, partite Iva più o meno mascherate, lavoratori a chiamata o a tempo determinato: insomma i “flessibili”, i non contrattualizzati. Un’ulteriore prova del fatto che in Italia esistono due mondi del lavoro: quello di chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato (meglio se con una pubblica amministrazione), e quello di chi non ce l’ha.
Per i primi valgono specifiche regole sul licenziamento, tutele dettate da contratti nazionali o di categoria, cassa integrazione, mobilitazione sindacale, attenzione dei mass media; per i secondi, il livello di protezione è simile a quello dei lavoratori del Bangladesh. Un tratto di penna e ci si ritrova seduta stante a spasso, senza alcuna tutela reddituale. Non esistono diritti né ragioni da far valere. Non esiste un sistema mediatico e politico che pianga una lacrima su quelle centinaia di migliaia di italiani che si ritrovarono disoccupati (o molto sottoccupati) alla fine del decennio scorso.
Intervenne poi la spending review, soprattutto sul settore pubblico: ragazzi, tagliate i costi. Indovinate chi ci rimise le penne. Da anni il settore pubblico (amministrazioni locali, scuola, sanità) fatica ad assumere anche per divieti legislativi. Da anni, per andare avanti, si appoggia a centinaia di migliaia di “collaboratori” sempre ai margini anche se svolgono gli stessi compiti dei fortunati “assunti”; precari sottopagati e soprattutto “tagliabili” in un amen. Così è stato. Le amministrazioni pubbliche – sanità in primis – hanno dato una sfoltita a retribuzioni e posizioni lavorative. In moltissimi casi da un giorno all’altro. Amen, appunto.
Per non parlare del mondo della scuola, dove s’è incrociato un nuovo concorso – mancava da moltissimi anni – con le speranze e le esigenze delle migliaia di precari che fino ad oggi hanno fatto sì che l’istruzione pubblica italiana non collassasse a causa dei continui tagli.
A tutto ciò aggiungiamo la riforma del lavoro targata Elsa Fornero. Nella quale sta scritto a chiare lettere che il lavoro tipico in Italia deve essere quello con contratto a tempo indeterminato; e che certe forme di sfruttamento del lavoro denominate “flessibilità” non hanno più ragione di esistere.
Un esempio? S’è obbligato gli studi legali a corrispondere almeno 400 euro mensili ai praticanti. Direte: una cifra da fame per due e più anni. In realtà un sogno per i praticanti stessi: quattro su cinque non prendevano nulla, o meno di 400 euro al mese. E si è stabilito che i cosiddetti stage aziendali non sono prestazioni lavorative gratuite, cioè sfruttamento di manodopera molto spesso qualificata a zero euro.
Per la più classica – ma non imprevedibile – eterogenesi dei fini, la riforma Fornero ha prodotto… più disoccupazione. Com’era appunto prevedibile, se si dà un giro di vite ai contratti a tempo determinato, questi non verranno più utilizzati; se si stringono le maglie su quelli a chiamata obbligando la regolarizzazione delle posizioni, questo accadrà una volta su tre. Gli altri due, a spasso. Il primo gennaio si rivelerà una data amarissima per migliaia di italiani, precari senza più futuro nel posto di lavoro occupato finora.
La pubblica amministrazione, per non collassare, ha ottenuto qualche mese di respiro per i propri precari, prima di sbatterli fuori dalla porta. Mesi che la politica avrà a disposizione per mettere mano ad un mercato del lavoro che sempre di più sembra regolato dalla legge del tutto o niente. La flessibilità lavorativa, in un Paese di scarso lavoro, molto costoso e troppo tutelato, è necessaria per tutti. Ma a condizioni logiche e civili, con poche regole chiare e una serie di diritti minimi che ci trasportino dal Golfo del Bengala all’Europa occidentale.
Un riequilibrio va fatto: non è possibile che, nello stesso ufficio, aula, laboratorio, officina, lavorino fianco a fianco l’italiano avviluppato nell’inferno del basso compenso a zero diritti, con l’italiano ipertutelato e pagato. E sia chiaro che il riequilibrio non si fa solo a forza di leggi (siamo campioni del mondo nell’aggirarle o snobbarle), ma cambiando quella serie di condizioni – legislative, contrattuali, tributarie, previdenziali – che hanno trasformato un’assunzione in pianta stabile in un evento ormai in via di estinzione.

di Nicola Salvagnin