Lavoro le riforme necessarie. Sulle «politiche attive» ora si attivi la politica

Sulle «politiche attive» ora si attivi la politica

Il dibattito post elettorale è ancora in pieno svolgimento ma le soluzioni all’impasse emersa dai risultati delle urne sembrano lontane. Diverse sono le interpretazioni avanzate per spiegare le cause che hanno condotto a questi risultati. V’è comunque una sostanziale unanimità di vedute sul fatto che gli esiti del voto sono lo specchio di un profondo malessere sociale e anche economico che attraversa larghe fette della popolazione italiana.

Malessere che ha certamente tra le sue origini più profonde il lavoro, in particolare la sua scarsità e, soprattutto, la sua bassa qualità. In campagna elettorale sono state diverse le ricette presentate dai partiti, e in larga parte si sono limitate a promesse generiche non supportate da adeguate coperture finanziarie. La trasformazione del lavoro che tutti stiamo intuendo, e molti vivendo sulla propria pelle, spaventa e alimenta nuove insicurezze e lacerazioni nel tessuto sociale.

La tecnologia se non viene spiegata e soprattutto governata porta a temere per la scomparsa del proprio lavoro. L’invecchiamento della popolazione ci costringe a restare al lavoro più a lungo in imprese che non sono attrezzate per il lavoro dei sessantenni. La globalizzazione dei mercati emerge come un nemico e non come un mondo che ci può essere più vicino. Il tutto in un contesto come quello italiano nel quale i pochi investimenti e la bassa innovazione, insieme ad una crisi che comunque ancora serpeggia, rischiano di spingerci sempre più agli ultimi posti di quelle catene globali del valore lungo le quali ormai si muove l’economia mondiale.

Questa situazione non è certo mutata grazie al voto. Vero è, anzi, che il voto pone tutti gli attori, non solo i partiti, di fronte a enormi responsabilità. E la prima responsabilità è quella di non cadere nell’eterno errore italiano di lasciare incompiute le riforme e le leggi promulgate e avviate negli ultimi anni.

Questo non significa certo che chi sarà chiamato a governare dovrebbe accettare in modo acritico tutto ciò che di incompiuto troverà. Tutto è modificabile. Tutto è adattabile a nuove idee, a nuovi paradigmi e alle visioni della economia e della società abbracciate dai partiti. E vi sono, in ogni caso, capitoli fondamentali delle riforme del passato da completare che sono trasversali, almeno negli obiettivi, a tutti i programmi elettorali. Il primo (sottolineato anche ieri a Roma nel convegno in ricordo di Marco Biagi) è quello delle politiche attive, senza le quali tutte le ricette presentate per correggere le attuali traiettorie del mercato del lavoro (prime tra tutte quelle che vogliono intervenire nuovamente sui contratti) risultano vecchie e ancorate ad un paradigma economico del passato.

Questo tema, sul quale si è respirata una certa vaghezza in campagna elettorale, potrebbe essere il primo elemento sul quale confrontarsi, a partire dal tentare di correggere un processo iniziato nella scorsa legislatura che, per ragioni varie, stenta a decollare. Il secondo capitolo è quello dell’innovazione, che passa inevitabilmente dall’implementazione e dal completamento del piano Impresa 4.0. Siamo di fronte ad un nodo cruciale, perché quello della tecnologia, dell’automazione, degli algoritmi è un tema che in un clima nel quale l’esclusione e il rischio di emarginazione pesano particolarmente nel generare insicurezza, riflettendosi poi sulle scelte elettorale. L’urgenza è quella di completare, dopo gli investimenti che volenti o nolenti sono avvenuti, gli interventi sul fronte del mercato del lavoro e delle competenze, concependoli all’interno del più ampio capitolo delle trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi.

Questo potrà passare da una seria riflessione sui nuovi modelli organizzativi e soprattutto sulle moderne tutele, a partire dalle sfide di una demografia che cambia e dei salari che, per colpa di una bassa produttività ma non solo, non crescono. Proprio in un contesto come quello attuale, dove la politica pare incerta e senza risposte, è il momento per gli attori sociali di riprendere il loro ruolo di protagonisti nella guida del cambiamento.

Un utile passo in questa direzione, sebbene ancora troppo limitato a molte dichiarazioni d’intento, è certamente il patto della fabbrica siglato da Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, che conferma il protagonismo dei corsi intermedi dopo la breve ed illusoria stagione della disintermediazione.

Sono i corpi intermedi cui è ora affidato un ruolo di responsabilità, a partire dalle esigenze dei singoli territori, soprattutto i più emarginati. La circostanza di avere un patto unitario sul fronte del lavoro e delle imprese rassicura e mostra un esempio concreto della possibilità che, nonostante tutto, ci si possa concretamente impegnare nel perseguimento del bene comune.

Avvenire