L’arredo liturgico, estetica della verità

Breve ricognizione tra ricettacoli preziosi, oggetti semplici e ordinari capaci di trasmettere un’identità progettuale e al contempo trascendente

La liturgia si compone di gesti, tanto più riconoscibili quanto più sono semplici. Nello stesso tempo, sono nobili, compiuti con dignità, non banali, poiché la realtà cui rimandano non è quotidiana ma divina. La liturgia si compone di cose: lo spazio, le immagini, gli arredi, le suppellettili, i paramenti i quali pure sono segni, anch’essi efficaci nella loro semplicità e contemporaneamente preziosi. L’oggetto liturgico è un ricettacolo prezioso: trattenendo, misurando e separando in un preciso istante, e solo in quello, quanto vi è versato o posato, si offre quale legame visibile col mistero e gli permette di aver luogo. La sua bellezza risulta da riferimenti e interferenze capaci di vivificarlo, dandogli un’anima teologica. Sorge dal pensiero sensibile al gesto: della mano che riceve, ostenta, deposita; delle labbra che pudicamente bevono. Vi sono delle parole-chiave alla base del suo disegno: congiunzione con la tradizione, purezza delle linee, nobiltà dei materiali, espressione simbolica della comunione, annuncio del mistero celebrato, attualità del messaggio eucaristico.

Questo desiderio d’immediatezza espressiva è evidente nel calice da messa ideato da Rudolf Schwarz: una larga base piatta si eleva in un fusto fusiforme, diviso in due parti dalla ghiera del nodo, sul quale, radicalmente, s’inserisce la coppa a sezione parabolica. Non dobbiamo pensare che a ciò corrisponda una motivazione estetica basata sulla pura astrazione: la figura prodotta palesa, invece, una reale esperienza di luogo. Lo spazio, dunque, è da sé un’immagine rivelatrice, in grado di attivare la formazione di cosa e chi vi si raduna e lo abita, secondo lo statuto iconico fondamentale del Cristianesimo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Vangelo di Matteo 18,20). Per questo l’oggetto semplice non si rivolge al soggetto con fredda astrazione ma esprime un’analogia di senso con quanto deve rimanere invisibile.

Nel corso del Novecento l’altare è ritornato a essere un oggetto scultoreo prettamente tridimensionale il quale definisce e lascia percepire lo spazio attorno a sé; esclude ogni processo additivo o imitativo attraverso un realismo trascendente che concentra e integra, in una presenza definita, l’azione sacramentale. La custodia eucaristica abbandona la rappresentazione allegorica del tempietto o dell’edicola votiva per farsi scrigno lucente, appena sollevato sugli appoggi, percorso da una gemmazione luminosa o straordinariamente intenso nella sua nudità contrappuntata dalla purezza naturalistica dei dettagli. L’arredo della mensa, in pochi segni netti e nel succedersi di parti luminose e trasparenti, connesse a incastro, esprime la necessità basilare di riportare la natura delle cose alla loro essenza.

Questa sorta di svuotamento formale libera l’oggettiva rappresentazione sacramentale e si oppone a ogni vaga impressione di un contenuto sacro. Tale strada indica quanto papa Francesco ha inteso come “stile” del cristiano, cioè “umiltà – che – vuol dire anche servizio, vuol dire lasciare spazio a Dio spogliandosi di se stessi – appunto – svuotandosi” (Omelia nella Domenica delle Palme, 2015). Cosicché un’estetica della verità, così come espressa da studiosi quali Fornari e Kearney, è possibile quando l’opera converge con la fede che esprime, attraverso un’arte delle cose ordinarie, capaci di farsi percepire quale segno dell’invisibile nel visibile. Ciò avviene non per rottura o sovrapposizione ma per via di una tensione: essa attraversa la forma come una vibrazione, concedendosi un’apparenza minima, luminosa e unitiva.

Nonostante l’opera di mirabili, appassionati e poco celebrati progettisti del XX secolo esprima compiutamente un’esigenza liturgica e architettonica atemporale, il loro oblio rischia di rendere inutile un’intera epoca costruttiva. Ancora adesso la predominanza del gusto personale incentiva l’uso di forme decorative, estrapolate da un catalogo scevro da un’autentica corrispondenza materica e percettiva (ma intese, per definizione, come in armonia con l’ontologia cristiana) o, al contrario, conduce alla dissipazione formale. Volgere, invece, lo sguardo alle proprietà sacramentali che – secondo le parole di Joseph Ratzinger (Teologia della liturgia, 2010, p. 786) – la struttura liturgica e i singoli segni devono lasciare trasparire, portando in sé una nobile semplicità corrispondente a quella del Dio infinito, può far comprendere come la vita dello spazio celebrativo si ripresenti nuova ogni volta, quale identità di un’architettura oggettuale, dove le cose, le persone e lo spirito si parlano e ci parlano.
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