L’analisi. Ipotesi Flat tax: grandi costi scarsa equità

Tra gli obiettivi, oltre alla riduzione della pressione anche il sostegno ai ceti medi e la riduzione delle diseguaglianze Fra le alternative possibili, ognuna con vantaggi e svantaggi specifici, agire sulle aliquote esistenti, lasciar aumentare l’Iva, adottare una patrimoniale, ripristinare imposte di successione più alte

Avvenire

Un piano di tagli fiscali da 30 miliardi sui redditi e sulle imprese. Matteo Salvini, il vincitore del voto europeo, ha appena rilanciato la pluriannunciata Flat tax. Non è ancora certo che la tassa piatta entrerà nella manovra d’autunno: i conti pubblici sono sotto esame Ue, lo spread volteggia a quote pericolose e il governo esce più instabile dal voto europeo. Ma il tema è all’ordine del giorno. Come è sotto i riflettori anche un altro argomento: quello delle crescenti diseguaglianze economiche. A parole, tutti i partiti affermano di voler ridurre le disparità e contrastare il declino delle classi medie, fenomeno che spaventa l’Occidente per i suoi risvolti economici e per i maggiori rischi politici che già sta comportando. Ma come inciderebbe la Flat tax sulle diseguaglianze? Come possono coesistere l’obiettivo di tagliare il prelievo fiscale e quello di ridurre i divari sociali crescenti?

Un Paese ricco con molti poveri L’Italia di oggi è una foto in bianco e nero. La ricchezza delle famiglie resta tra le più alte del mondo (è aumentata a fine 2018). Ma il numero dei poveri durante la crisi è raddoppiato a 5 milioni. Secondo dati derivanti dalle successioni ereditarie, l’1% più ricco degli italiani ha aumentato dal 18 al 25% la sua quota parte della ricchezza nazionale tra il 1995 e il 2016. Tra i maggiori Paesi Ue l’Italia ha, con la Spagna, il maggior tasso di diseguaglianza (indice di Gini). In tutti i Paesi il divario tra i redditi di mercato è sempre considerevolmente maggiore di quella che si registra dopo il prelievo fiscale e la redistribuzione messa in atto dall’intervento pubblico. Ma la portata di questo riequilibrio varia considerevolmente: secondi i dati del Forum Disuguaglianze, oggi in Italia fisco e welfare riducono le disparità di reddito di 18 punti, meno di quanto avvenga in Francia e Austria (22 punti), Germania (21) o Spagna (19).

Il nodo progressività Una riforma del fisco avrebbe ricadute importanti tanto sul gettito complessivo (se si riduce vanno tagliati servizi e investimenti o aumentato il deficit) quanto sulla distribuzione del prelievo (cioé sul peso specifico delle tasse sui diversi ceti economici del Paese). A parità di gettito, più un sistema fiscale è progressivo e più riduce le diseguaglianze di reddito. Non a caso la progressività è prescritta dalla nostra Costituzione (art. 53). Per rispettarla occorre che il prelievo aumenti in modo più che proporzionale al reddito. Finora questo è stato assicurato dalle aliquote crescenti Irpef. L’introduzione di un’aliquota fissa dovrebbe essere quindi accompagnata da correttivi (come esenzioni o deduzioni) per non essere incostituzionale.

La struttura dell’Irpef È opinione diffusa che l’attuale imposta sul reddito sia molto evasa e poco equa. Su oltre 40 milioni di contribuenti 13 milioni non pagano nulla. I 5 milioni con reddito sotto i 15mila euro versano meno del 4% del totale. Il 57,5% del gettito è assicurato dai 20 milioni di cittadini con imponibile tra i 15 e i 50mila euro. E poco meno del 40% dai due milioni di italiani che guadagnano oltre 50mila euro. C’è quindi una forte progressività. Che diventa palese iniquità tenendo conto dell’evasione dell’Irpef, che è una sorta di tassa negativa regressiva. Nel 2015 valeva 38 miliardi di euro sui 163 del gettito Irpef. Il recupero del ‘nero’ permetterebbe da solo di finanziare una forte riduzione del livello o del numero delle aliquote, anche a parità di prelievo complessivo. Ma finora nessuno ha voluto o saputo ridurre in maniera significativa l’area dell’evasione, in Italia al top in Europa. Pur con tutti i suoi limiti, comunque, nell’attuale sistema italiano è l’Irpef ad assicurare la progressività del prelievo sulle persone fisiche, come ricordano gli economisti Massimo Baldini e Leonzio Rizzo nel loro recente volumetto ‘Flat Tax. Parti uguali tra diseguali?’ Le imposte indirette, come l’Iva, diminuiscono la loro incidenza all’aumentare del reddito, sono quindi regressive: pesano oltre il 25% sul 20% più povero della popolazione e circa il 10% sul 20% più ricco. Peraltro il raggio d’azione dell’Irpef è stato già ridotto negli anni. Sono nate imposte sostitutive di tipo proporzionale, che hanno ridotto la progressività del sistema. L’ultima è la Flat tax al 15% per le partite Iva, estesa dal governo in carica fino ai 65mila euro di reddito (al 20% fino a 100mila euro dal 2020). Da qualche anno c’è la cedolare sugli affitti: una tassa piatta (21%) indipendente dal reddito e dal patrimonio che ha favorito soprattutto i ceti medio-alti, tra i quali si concentra la pluri-proprietà immobiliare.

La Flat tax (in varie versioni) Baldini e Rizzo hanno calcolato che per garantire lo stesso gettito dell’attuale Irpef una Flat tax su base familiare e con una fascia di esenzione di 10 mila euro dovrebbe avere un’aliquota del 35% (ben più alta del 15-20% del programma di governo): comporterebbe una riduzione del prelievo per le fasce di reddito più basse e per il 5% dei più ricchi ma un aggravio fiscale per la classe media. Per assicurare sgravi anche ai ceti medi l’aliquota unica dovrebbe essere posta addirittura al 43%. Ipotizzando invece di far scendere l’asticella al 25% ci sarebbero vantaggi per tutte le classi di reddito, anche se molto più pronunciate per le più benestanti. In entrambi i casi diminuirebbe la progressività e aumenterebbe la diseguaglianza tra i redditi netti. Ma con l’aliquota al 25% ci sarebbe anche una forte diminuzione del gettito, calcolata in circa 50 miliardi di euro l’anno. Una voragine che nessuna revisione della spesa è in grado di colmare se non riducendo drasticamente l’area dei servizi pubblici. L’ipotesi più recente è quella di una Flat tax familiare al 15% fino a 50 mila euro, che avrebbe un costo più contenuto (comunque importante, sui 15 miliardi). Ma non sarebbe affatto piatta, perché superata quella soglia di reddito resterebbero le attuali aliquote Irpef. Con un netto salto di imposizione tra chi sta sotto e chi sta sopra: un incentivo all’evasione al crescere del reddito. Dal punto di vista dell’equità, poi, avvantaggerebbe molto più chi sta a 50mila che a 1520 mila, e le famiglie monoreddito più di quelle con due stipendi.

Le alternative possibili Uno sgravio Irpef potrebbe essere finanziato anche attraverso altre forme di imposizione, se occorre salvaguardare il gettito. È il caso dell’Iva, destinata a salire automaticamente da gennaio se il governo non disattiverà le clausole salva-deficit. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria preferirebbe trasferire su questa imposta parte del gettito che pesa su redditi e lavoro. Ma come abbiamo visto, l’effetto sulle famiglie è tutt’altro che progressivo. Un’altra strada sarebbe l’imposta patrimoniale, che ha molti detrattori (ma anche sponsor di rango, come l’Ocse o il Fmi), e presenta sia controindicazioni che vantaggi: tra i primi la spinta alla fuga di capitali (se attuata anche sui beni finanziari) tra i secondi il fatto che le proprietà sono più difficili da nascondere al fisco del reddito. Una patrimoniale di fatto esiste già, l’Imu, ma è concentrata sugli immobili (che valgono ben il 50% delle ricchezza delle famiglie) e non è progressiva. L’imposta infatti non si paga sulla prima casa (piccola o grande che sia). Ma dalla seconda proprietà in su prevede aliquote fisse, tanto per chi ha solo la vecchia abitazione dei nonni che per il proprietario di un intero quartiere. Un’altra opzione per un possibile riequilibrio di risorse passa dall’imposta di successione. Da questo punto di vista l’Italia è una sorta di ‘paradiso fiscale’. Siamo ultimi nell’area Ocse per il livello di tassazione. In Usa e Gb si arriva ad aliquote del 3040%. Da noi l’aliquota sui passaggi diretti è al 4%, con esenzione fino a un milione di euro (calcolata per gli immobili sul ‘benevolo’ valore catastale). L’apporto delle tasse di successione al gettito fiscale è sceso negli ultimi decenni e oggi è quasi irrilevante: vale circa mezzo miliardo.