L’accoglienza cristiana, prima di ogni legge

settimananews

di: Piotr Zygulski

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La Chiesa cattolica nel recente Sinodo dei giovani ha riconosciuto che «esistono questioni relative al corpo, all’affettività e alla sessualità che hanno bisogno di una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale […] A questo riguardo il Sinodo ribadisce che Dio ama ogni persona e così fa la Chiesa, rinnovando il suo impegno contro ogni discriminazione e violenza su base sessuale» (§ 150). Gli studi scientifici – in particolare medici e psicologici, ma pure storici – oggi ci offrono più elementi per una «più adeguata comprensione della persona umana» (Pontificia Commissione Biblica, Che cosa è l’uomo?, 2019) e quindi a una riconsiderazione di alcuni giudizi che oggi ci paiono essere stati avventati.

Al netto di ciò, possiamo partire da un punto fermo: uomini e donne di orientamento omosessuale «devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione» (CCC 2358). Questo è ciò che del Catechismo vale universalmente, prima delle disquisizioni moralistiche (che dicono poco ormai anche ai cristiani stessi) sulla liceità/bontà del linguaggio sessuale al di fuori del matrimonio eterosessuale sacramentale.

Questo è ciò che ha ribadito anche papa Francesco e che vorrei venisse proclamato senza ambiguità da vescovi e preti. In ascolto di questa affermazione poi sono tutti i battezzati, regnando nell’amore con Cristo, a declinarla in scelte personali, politiche e legislative, se necessario.

L’omotransfobia che ancora c’è

119 nel rapporto 2018, 187 in quello 2019, 134 secondo i dati diffusi a maggio 2020. Sono i casi di omofobia in Italia riportati dalla stampa e censiti da Arcigay. Riguardo le aggressioni fisiche vere e proprie si evidenzia un andamento analogo: 57 nel 2018, 83 nel 2019 e in calo a 32 nell’ultimo rapporto. Oltre ai casi finiti sulle cronache, per ogni adolescente che denuncia vi sarebbe una sessantina di altre vittime che non hanno la forza per farlo. Per avere un ordine di grandezza del fenomeno, si conta una media di 50 telefonate alla Gay Help Line per raccontare le violenze subite, anche in famiglia, in aumento nel periodo del COVID-19. Secondo un altro recente rapporto, negli ultimi sette anni e mezzo dei 1.050 reati a sfondo omofobico ben 10 (1%) sono stati commessi da presbiteri; considerando che i preti sono lo 0,03% della popolazione italiana, «la probabilità di incontrare un omofobo tra i preti è trenta volte più alta di quella di trovarlo tra i laici».

La tutela costituzionale che già c’è

Ingiurie e violenze indubbiamente sono reati e già puniti ai sensi del codice penale italiano. E già la Costituzione della Repubblica Italiana, anche se non esplicita l’orientamento sessuale o l’identità di genere, afferma all’art. 3 che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Oltre a ciò si riconosce che è «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli […] che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

Così ha ribadito anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale costituiscono una violazione del principio di eguaglianza e ledono i diritti umani necessari a un pieno sviluppo della personalità umana».

Come accogliere allora l’invito del Presidente della Repubblica per promuovere e valorizzare le persone LGBT+, «anche nelle relazioni interpersonali e affettive […] nella condizione di esprimere la propria personalità e di avere garantite le basi per costruire il rispetto di sé»? Lo si vuole davvero fare? Questa è la domanda che ciascuno, a partire dal cristiano nel proprio impegno politico, dovrebbe porsi. Ogni dialogo per fronteggiare l’omotransfobia deve partire da questa precondizione.

Omotransfobia: un nuovo tipo di aggravante?

Con questo non vorrei essere arruolato però tra i sostenitori di una proposta o di un’altra. Anzi, penso che l’eccessiva tipizzazione delle aggravanti per i reati (attualmente se commessi «per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso», 604ter c.p. italiano) sia abbastanza deleteria, perché innumerevoli potrebbero essere le tipologie di odio non menzionate. Forse preferirei una formulazione più inclusiva, del tipo «condizioni/caratteristiche/idee personali o sociali», ma chiedo ai giuristi di trovare la migliore. Alcuni amici esperti in materia segnalano comunque che, se si vuole mantenere la coerenza logica della legge, non si capisce perché, se c’è l’aggravante di odio razziale, non ci dovrebbe essere anche quella di omotransfobia. Ultimamente però si parla sempre più anche di sessismo (spesso a senso unico), di ageism (odio verso persone di età diversa, giovani VS anziani), e altre divisioni sino alle più pretestuose per nascondere la vera frattura sociale che si acuisce nell’attuale sistema economico.

Per quanto tipizzate, le aggravanti restano poco determinate. Spetta poi sempre al giudice definire i margini della discriminazione: se una persona commette violenza su una vittima africana riceve l’aggravante; se invece si fosse una persona a subire violenza in quanto “terrona” o “milanese untore”, come alcune recenti minacce che ho notato scritte sui muri? Si tratta forse di odio etnico, nazionale o razziale? Evidenzia questi paradossi Alessandro Spena. Sempre che si concordi sul fatto che una violenza con motivazioni ideologiche sia più grave rispetto a una violenza “ordinaria” – e pure qui ci sarebbe da discutere –, non si tratta degli elementi costitutivi del reato, ma delle cause soggiacenti.

Discorsi omotransfobici: un nuovo tipo di reato di opinione?

Sopporto quindi ancora meno le leggi (come il 604bis c.p.) che reprimono i cosiddetti “reati di opinione”, punendo chi propaganda/istiga qualche tipo di idea o ideologia, seppur delirante, negazionistica, complottistica, antiscientifica, discriminatoria… e non sto qui a tipizzarle, perché davvero sarebbero infinite. D’altro canto, non esplicitarle tutte crea una sorta di ideologia pubblica di ciò che si può pensare e ciò che invece è reato per il solo fatto di manifestare la propria follia.

In alcuni paesi erano giunti a prevedere persino il carcere per il solo fatto di possedere simboli o libri di una data tendenza politica; di certo non è il massimo dello stato di diritto: la libertà di espressione – anche della più assurda opinione – è indicatore della salute di una democrazia, e non solo di un diritto del singolo. Estendere ulteriormente i “discorsi d’odio” (hate speech) anche a quelli “omofobi” crea inoltre un’ambigua commistione tra morale e diritto, che si muovono su piani distinti: tutto ciò che è immorale deve essere reato? Sembra piuttosto una vendetta rispetto ai tempi in cui ad essere immorale non era l’omofobia ma l’omosessualità, e si poteva essere puniti penalmente per questo.

Chiariamo che comunque nel testo consolidato attualmente in esame in Parlamento è stata rimossa la modifica al 604bis c.p. che inizialmente prevedeva tale nuovo “reato di opinione”.

In democrazia si scommette: la verità vincerà sull’idiozia

Finché i “discorsi d’odio” si mantengono sul piano delle opinioni – mentre ovviamente gli atti di violenza vanno puniti innanzitutto in quanto tali, e poi con eventuali aggravanti sulle motivazioni futili, ideologiche, premeditate – le persone veramente democratiche hanno gli anticorpi per fronteggiare anche i deliri più pericolosi. Se non li hanno devono farseli, e ciò deve avvenire non in tribunale, bensì sull’unico terreno possibile in questa laicità terrena: proprio l’agone pubblico della democrazia, che è una scommessa antropologica ed educativa. Se le idee sono così forti, un’idiozia può essere sconfitta dalla verità che è ancora più forte, anziché ricorrere alla violenza pubblica che alimenta insofferenze, risentimenti, vittimismi e vendette? In questo mi trovo d’accordo con i liberali.

L’uguaglianza costituzionale di fronte alla legge

Una riflessione a parte andrebbe fatta per la vigente formulazione costituzionale di San Marino, per la quale «tutti sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, orientamento sessuale, condizioni personali, economiche, sociali, politiche e religiose». Qui si elencano gli ambiti – senza però escluderne altri – in cui soprattutto si deve concretizzare questa uguaglianza davanti alla legge. Nulla a che vedere con l’uso propagandistico, emergenzialistico e “propulsivo” del diritto penale – cui si fa sempre più ricorso soprattutto nell’ordinamento sudamericano ad esempio per i reati autonomi di femminicidio – ma che pure in Italia ha partorito “nuovi” reati come il revenge porn, già punito con altre norme, ovviamente.

Svariati penalisti argomentano accademicamente contro questa strumentalizzazione del diritto penale per risolvere le disparità sociali mediante norme persino più repressive del fascista codice Rocco, eppure evitano di esporsi pubblicamente perché temono di essere associati a chi invece effettivamente è autore o complice di tali discriminazioni. Se siamo giunti a questa deriva probabilmente è perché esistono effettivamente discriminazioni, ma non si è saputo o voluto fronteggiarle sul piano economico, educativo, familiare, culturale, religioso. Anzi, purtroppo alcuni ambienti ecclesiastici che hanno preso posizione a favore della “famiglia tradizionale” si sono rivelati persino incubatori di intolleranza e di odio verso il diverso.

Qui allora torna la domanda fondamentale: ci sono altre vie differenti da quella penale per sconfiggere «ogni marchio di ingiusta discriminazione» verso le persone che di presentano come LGBT+? Probabilmente sì, soprattutto se si crede nella società civile. Se la parità di trattamento è un principio già fondamentale nel dettato costituzionale, attenzione e rispetto difficilmente possono venire imposte per legge votate a colpi di lobbismo contrapposto, utili prevalentemente a fidelizzare il proprio elettorato.

La sfida educativa: ascolto, dialogo, confronto con le persone

Più che disquisire sui cavilli delle leggi, soprattutto i pastori cristiani sono chiamati a vivere l’accoglienza concreta: mostrando con il nostro atteggiamento che un parente, un parrocchiano, un educatore o un religioso è sempre tale a prescindere dall’orientamento sessuale e che chi è vittima di qualsiasi tipo di violenza o discriminazione può trovare nelle nostre case e nelle nostre parrocchie una porta sempre aperta. È facile scaricare al legislatore, agli avvocati e ai giudici meriti e colpe. La vera sfida è invece un’accoglienza della diversità serena ma visibile nell’ordinarietà delle nostre realtà, nella catechesi, nella pastorale, con proposte realistiche di crescita affettiva e umana integrando la dimensione sessuale, come invocava la Relatio post disceptationem del card. Péter Erdő nel 2014.

Ma è il documento finale votato nel Sinodo del 2019 che esplicita:

«Esistono già in molte comunità cristiane cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali: il Sinodo raccomanda di favorire tali percorsi. In questi cammini le persone sono aiutate a leggere la propria storia; ad aderire con libertà e responsabilità alla propria chiamata battesimale; a riconoscere il desiderio di appartenere e contribuire alla vita della comunità; a discernere le migliori forme per realizzarlo. In questo modo si aiuta ogni giovane, nessuno escluso, a integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé».

In alcuni casi – grazie a Dio – è già così, ma purtroppo si tratta ancora di eccezioni. Dobbiamo essere pronti a schierarci dalla parte delle vittime, a dissociarci nettamente da ogni discriminazione, ma soprattutto a prevenire ciò che potrebbe causarle. Ciò che è quasi impossibile quando ci si incaglia nei discorsi sui massimi sistemi, è invece attuabile nell’incontro con la realtà. Il Vangelo ci racconta che persino Gesù ne uscì trasformato dall’incontro personale con la Cananea.

Come dice il gesuita p. James Martin, c’è un «ponte da costruire» e continuamente escono contributi preziosi in questa direzione. Occasioni di ascolto, di dialogo e di confronto esperienziale con le persone in carne ed ossa, che possano esprimere pienamente e alla luce del sole le proprie personalità e le proprie relazioni, per quanto “diverse” si possano mostrare e ci possano sembrare: ecco quello che una Chiesa che afferma di voler camminare con Cristo dovrebbe offrire.