Sposata hai una pena di non sentire mai dolcezza alcuna che non sia di tutti
Davide Maria Turoldo, L’uomo
Il destino di ogni vocazione è la generazione di nuova vita, la liberazione di schiavi dai faraoni, oltre il mare. Ma ogni vocazione è anche una grande storia d’amore. Il suo buon sviluppo nel tempo sta allora nella possibilità concreta di poter tenere assieme la chiamata alla liberazione di oppressi con la delicata gestione delle emozioni narcisistiche presenti in ogni innamoramento.
Ma perché la vocazione prosegua bene il suo sviluppo, è necessaria la maturazione dell’eros in philia (amicizia). Quando ciò accade, la prima chiamata diventa una esperienza di compagnia e di fraternità. Si esce dal registro unico e prevalente del sentimento e della passione e si costruiscono comunità. Non è detto che i sentimenti e l’innamoramento scompaiano, ma non sono più né l’unico né il primo linguaggio.
Anche nell’età della philia resta l’eros, perché ogni forma dell’amore è co-essenziale per vivere bene: non c’è una buona philia (né autentica agape) senza eros. Ma la maturazione in philia cambia l’eros per sempre, lo apre, lo umanizza. Nelle vocazioni che non si guastano lungo la strada, la philia, nata dalla maturazione dell’eros, fiorisce a sua volta in agape. È questo il tempo della maturità piena, quando i fiori della primavera diventano i frutti dell’estate.
La comunità che ha custodito la prima vocazione e l’ha fatta diventare una avventura collettiva condivisa e feconda, diventa ora il trampolino di lancio verso orizzonti nuovi dello spirito. La comunità svolge il suo mestiere di pedagogo buono e introduce finalmente la persona alla vita adulta. Si continua a vivere con e per gli altri compagni di viaggio, ma con una libertà e una verità tutte nuove. La liberazione promessa dalla prima chiamata qui raggiunge un primo traguardo: si è liberati dalla stessa comunità che ci era stata donata. Si capisce che si è stati mandati per una comunità più grande della propria: quella di tutti.
Si scopre che la famiglia che ci ha accolto non era l’ultima parola, ma solo la penultima. Che il nostro destino si trova nella terra di tutti, che il cielo sopra il giardino di casa è troppo piccolo per contenere la nostra chiamata all’infinito. E si parte, anche quando restiamo nella casa di sempre. Non c’è libertà più vera e radicale di quella che sgorga dall’agape, quando si diventa veramente anima mundi e si conosce la gratuità. Chi si imbatte in queste anime agapiche sente il battito dell’universo intero, non più limitate dai confini di una comunità o di uno specifico carisma. Le loro identità diventano radicalmente universali, le loro comunità hanno sempre la porta aperta. Non tutte le vocazioni giungono alla loro fase agapica. Molte, troppe, si bloccano negli stadi precedenti. L’esito più comune è fermarsi alla fase “erotica”. Si resta per tutta la vita dentro il registro del sentimento, delle emozioni, del romanticismo.
La fede biblica non è mai consumo individuale: è sempre generazione di salvezze non ancora compiute, per gli altri, e qualche volta per noi. Noè salì sull’arca di salvezza che aveva costruito per vocazione. Mosè invece non raggiunse la terra promessa, la vide solo da lontano. Quando riceviamo una chiamata non sappiamo se ci salveremo anche noi o se salveremo solo altri. Ma ciò che davvero conta è camminare fino alla fine. Il monte Nebo può essere un buon posto per morire se prima abbiamo visto il nostro popolo raggiungere la salvezza.
E la malattia diventa incurabile. Non si capisce che per passare da una età della vita ad un’altra occorre solo imparare a morire. Non meno comune è il blocco nella fase della philia, che è più difficile da individuare come malattia e fallimento vocazionale, perché il confine tra philia e agape è molto più sfumato di quello tra eros e philia. Le persone che raggiungono la fase della philia sperimentano frutti che assomigliano a quelli tipici dell’agape. Quando dall’eros individuale si è raggiunta la coralità della vita comunitaria, si vive una nuova fecondità, soprattutto se confrontata con la sterilità della fase erotica prolungata oltre il suo naturale arco temporale. Per questo è facile restare ingabbiati dalla comunità-philia, e non approdare mai alla vera fase agapica.
Quando, infatti, l’identità personale si è completamente identificata per anni con quella collettiva, per passare alla nuova libertà dell’agape si vive una vera e propria morte. La comunità-philia deve scomparire per fare spazio alla comunità-agape. Questa scomparsa trascina con sé tutto: il carisma, la nostra personalità, non di rado anche la fede. Lo smarrimento è totale e radicale, ma non c’è altra strada per raggiungere la terra dell’agape.
La saggezza di chi accompagna le persone durante le crisi della philia sta nel saper indicare la terra promessa oltre i flutti che stanno travolgendo tutto, sapere mostrare al di là del mare un albero molto più fecondo e rigoglioso del bonsai che sta morendo. Solo chi ha già oltrepassato la fase della philia (e dell’eros) dovrebbe accompagnare chi sta ancora lottando nel guado. Troppi fiumi Giordano non vengono attraversati perché non sono stati mai avvistati dalle guide, o sono stati confusi con il Nilo dell’antica schiavitù.