La teologia del cinema: un dibattito aperto

cinema

Il nostro saggio Teologia del cinema ha avuto una ricezione contrastata[1]. Il dibattito è ormai aperto ed è istruttivo portarlo a fondo.

Alcuni commentatori si sono premurati di escludere che il nostro embrionale (e pure suggestivo – così viene qualificato) commento ai film e alla pratica del cinema costituisca una vera e propria teologia del cinema.

Cosa è la teologia?
Questa preoccupazione epistemologica (demarcare il campo ed escludere opere spurie) merita una considerazione. Essa reagisce indirettamente alla provocatoria presenza di una nuova “teologia-di” (come è appunto la teologia-del-cinema) rispetto all’assetto disciplinare complessivo della materia “teologia” per come essa è coltivata e attualmente insegnata.

È dunque una buona occasione per riproporre la vecchia questione: che cos’è la teologia? Sarebbe imbarazzante o ingenuo dimenticare che gli approcci teologici sono stati storicamente molteplici (e per certi aspetti decisamente conflittuali fra loro), poiché gli specifici orientamenti si sono sempre legati a fattori diversi: la scuola di formazione degli studiosi, la biografia, personalità e spiritualità degli autori, l’influsso di un determinato filone esegetico o di una corrente di studi biblici e soprattutto la rilevanza di una corrente filosofica.

Quest’ultimo è un punto da sottolineare, dato che la definizione di filosofia è a sua volta, da sempre e intrinsecamente, oggetto di controversia, non solo quanto al contenuto, ma anche riguardo alla forma espressiva, scritta o orale. Per il contenuto basti ricordare un esempio bioetico (la bioetica è filosofia o teologia morale applicata alla vita).

A giudizio di alcuni apprezzati pionieri di tale disciplina, la bioetica appunto, fu la medicina a salvare la vita all’etica, strappandola dall’ossessiva ed esclusiva preoccupazione per questioni di ordine logico-linguistico (la cosiddetta metaetica) e riportandola alla considerazione di casi concreti e situazioni dilemmatiche (l’etica normativa e prescrittiva), ben diversa dalla semplice raccolta d’opinioni (favorevoli, contrarie o indifferenti) relative a una questione morale di inizio o fine vita (l’etica descrittiva).

Qualcosa di simile accade alla teologia, il cui impianto “sistematico” è costretto periodicamente a riformularsi in forza delle pressioni provenienti dalle “teologie-di”. Basta dare una scorsa ai dizionari teologici, per constatare che statuto della disciplina è qualificato diversamente a seconda delle prospettive teoriche coltivate e privilegiate.

Alla voce “Teologia” curata da G. Bof in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, 2006, v. 11, p. 11420 (presidente del comitato scientifico Virgilio Melchiorre), si afferma che il problema teologico specifico è “la riassunzione integrale, a livello della riflessione e del suo linguaggio, del significato dell’annuncio cristiano, non riconducibile a significante e a dunque a funzione di rinvio ad altro […]”.

Alla p. 1315, voce “Teologia”, del Dizionario critico di teologia, ed. it. a cura di P. Coda, Roma, Borla/Città Nuova, 2005, Jean-Yves Lacoste (il direttore del Dizionario) scrive: “Rendere ragione della fede cristiana, parlare con coerenza del Dio al quale le Scritture rendono testimonianza, o parlare di tutte le cose riferendole a Dio, sub ratione Dei […]”.

Nel Dizionario teologico interdisciplinare, Torino, Marietti, 1977, coordinato da Luciano Pacomio, manca una voce “Teologia” e si espongono invece “Teologie di…” oppure “Teologie e…” oppure “Teologie nella…”, lasciando all’ultimo capitolo del vol. 3, capitolo curato da Luigi Serenthà, il compito di una ripresa sintetica. Nel vol. 1, alla voce “Teologia dogmatica”, pp. 262 ss, lo stesso Serenthà valorizza una logica cristocentrica e difende la scelta del Dizionario di “rispettare la fluidità” (p. 276) del discorso teologico, imboccando una linea prevalentemente storica.

L’intelligenza della fede
Pur tra queste variazioni, si potrebbe riformulare così l’essenza del teologare: la fede cerca e sollecita l’intelletto a occuparsi dell’unico significato che conta, l’annuncio cristiano. Il contenuto di fondo per la teologia è la fede cristiana (fides qua e fides quae, secondo la nota distinzione) ma nessuna percezione intellettuale ne coglie la verità in forma immediata e apodittica, bensì la interpreta e la interroga sempre da capo a partire da posture e prospettive teoriche specifiche, che possiedono pregi e limiti, punti di forza e scotomi insuperabili.

Conosciamo l’importanza che ebbe Heidegger per Bultmann, o Aristotele per san Tommaso, o Ricoeur per molti teologi contemporanei. Il problema però di una definizione come quelle che abbiamo sopra riportato è che termini quali rinvio, significato, significante, riassunzione, intero, riflessione, annuncio acquistano un senso diverso a seconda della famiglia di pensiero entro cui essi vengono utilizzati.

Forse la difficile comprensibilità linguistica di certi volumi o articoli redatti da teologi accademici potrebbe essere dovuta proprio all’implicita e dissimulata dipendenza da teorie etiche, ermeneutiche o ontologiche, le quali non vengono adeguatamente rielaborate alla luce del criterio cristologico[2]. Il recensore che dichiari “non teologico” uno scritto dovrebbe per coerenza indicare che cosa sia per lui “teologia” e a quale corrente teologica egli appartiene.

Cinema: un tentativo teologico
In Teologia del cinema abbiamo cercato di esporre analiticamente le parentele contratte dalla teologia-del-cinema con la teologia dell’immaginario, della narrazione, del sensibile e con alcuni spunti provenienti dal filone dell’estetica teologica inaugurata da Balthasar. Abbiamo anche voluto evidenziare, parlando di narrazioni incarnate, come sia la vicenda del Figlio dell’Uomo a rappresentare il paradigma di riferimento per ogni visibilizzazione artistica della verità.

Forse non siamo del tutto riusciti nei nostri intenti, ma almeno abbiamo segnalato che, senza intercettare le domande di senso contenute nella pratica filmica, la teologia rischia la sordità rispetto a molte evidenze di fede scaturenti dall’esperienza ecclesiale, dalla voce del laicato (in particolare di quello femminile), dai dilemmi quotidiani di ordine pastorale e dalle stesse sollecitazioni magisteriali.

Altre critiche sono state mosse alle modalità espositive da noi adottate.

La nostra analisi – afferma un recensore – cerca le slabbrature e non persegue un’organica chiarezza. La critica è legittima. Ma a noi suona anche come un parziale elogio, dato che chi pensa il sacro e ne parla, compie un’azione slabbrante, incrinante. Egli apre rompendo, lacera gli orli, sbecca i confini. La parola pronunciata su Dio proviene da una bocca bruciata da un carbone ardente (Is 6,1-13).

Invece che ricostruire architetture concettuali eleganti e armoniche – che qualcuno rimpiange – occorre che la verità cristiana, scandalo e stoltezza per giudei e pagani, venga offerta nella forma del “Labirinto di vetri rotti” installato da Claudio Parmiggiani nel 2008 dentro le mura del Collège des Bernardins, un edificio cristiano del XIII secolo. Solo rompendo e slabbrando i vetri del Labirinto il visitatore riesce a uscirne. Intanto, fortunatamente, le astrazioni minimaliste di Rothko, Burri, Fontana, Flavin, Simpson abitano le navate di alcune (ancora troppo poche) chiese cattoliche.

E proprio a Parmiggiani una Basilica prepositurale ambrosiana, quella di S. Maria Assunta, a Gallarate, ha chiesto di installare il nuovo altare e ambone nello spazio prepositurale. Sull’esito artistico, che ciascuno può contemplare grazie a Internet, abbiamo redatto un libricino: L’altare frainteso. Etica di un restauro, Missaglia, Bellavite Ed., 2021.

Un originale invito a pensare Dio
Riprendiamo il nostro discorso. La difficoltà di un’univoca auto-definizione, in teologia, è evidente osservando appunto l’acuta diversità delle forme espressive adottate. Il che del resto ripropone un domanda di antico sapore speculativo.

È giusto, persino scontato richiedere in teologia una giustificazione coerente, argomentata e rigorosa delle tesi esposte, ma rimane la questione di quale genere letterario propizi in via privilegiata una riflessione sul senso dell’essere, sulla causa prima o sulla presenza del Dio-per-noi secondo l’icona del Cristo.

È stato riconosciuto un valore indubbio a modalità variegate di scrittura filosofica (per limitarci al segno grafico): i discorsi cartesiani, i pensieri di Pascal, gli aforismi di Nietzsche, le meditazioni offese di Adorno, le citazioni di Benjamin, la neo-casistica di Toulmin, le confessioni di Agostino, le Summae medievali, le lettere di Bonhoeffer.

Possiamo pertanto aggiornare la questione. Dato che anche il cinema è in grado di proporre un’originale modalità di pensare Dio[3], ci parrebbe legittimo – in linea di principio – dare riconoscimento teologico anche a quella critica del cinema, che adatta il suo linguaggio alle forme espressive dei film. Del resto, anche la teologia più astratta riceve un impatto rilevante dalle strutture linguistiche in cui la fede originaria è attestata e il kerigma è annunciato. Narrare la fede implica pensare la fede e viceversa ogni atto di pensiero è intrinsecamente connotato da elementi narrativi. Mito e logos non si sono mai separati.

Viene alla mente la bella immagine – un’immagine, ancora una volta – della scialuppa platonica. Anche se le generazioni successive a Socrate non sapevano più comprendere l’enigmatica sapienza orale delle origini (quella che ancora traluce nel poema filosofico di Parmenide), tale sapienza venne imbarcata, in forme trasfigurate, e quindi salvata una volta per tutte, grazie alla scialuppa filosofica offertale dal dialogo platonico[4].

Il mito non si è mai eclissato, anche se qualche pensatore, religioso o a-religioso, aveva maldestramente previsto che il trattato dottrinale si sarebbe sbarazzato delle imprecisioni del racconto. La forza mitopoietica del teatro antico (in cui la parola si fa carne di attori) ha contagiato il cinema (in cui la verità del teatro sembra spingersi oltre i confini del qui e ora) ed anzi le due forme di dramma visivo non si possono più separare: a teatro si mostrano spezzoni di film; il cinema ricrea contesti teatrali; il video-artista mette in movimento pitture immobili; la fissità dell’icona orientale rallenta il cinema e lo uniforma a una videocamera di sorveglianza – come ha osservato in modo pertinente un critico/regista/sceneggiatore statunitense[5].

Detto questo, vorremmo ora riproporre sinteticamente la nostra idea teologica di cinema, sollecitando un approfondimento delle riflessioni in corso.

Un’idea teologica di cinema
La teologia del cinema è una filiazione della teologia narrativa, una corrente che ha riscosso purtroppo scarso credito in sede sistematico-fondamentale e che invece esige, al pari della teologia dell’immaginazione, un’integrazione rinnovata[6]. Teologia “del cinema” non è da intendere come genitivo oggettivo (lo studio del cinema dal punto di vista religioso), ma come genitivo soggettivo. Col cinema si inaugura una forma consapevolmente nuova del pensamento e della nominazione di Dio.

Come la Parola si è fatta carne, così la narrazione ha preso la forma di corpi che si muovono e percorrono le coordinate spazio temporali con una mobilità che i cinefili apprezzano come miracolosa. Il gesto registico si impone fascinosamente ai nostri occhi come dotato di una tale signoria sulla finitudine, la morbilità e la morte, da indurci a considerare un rito privilegiato l’accesso alle cattedrali della visione.

La fiducia, con cui noi accettiamo di andare a vedere al cinema ciò che si annunzia quale racconto significativo, dentro cui abitare un’esperienza integralmente personale, ci induce a siglare un patto narrativo, che richiama alcuni aspetti dell’alleanza religiosa. Ci attendiamo di non venir traditi – come spettatori di cinema – mentre promettiamo di rispettare le leggi della fruizione e di sospendere (volontariamente e criticamente) la nostra incredulità davanti a ciò che ci viene mostrato in sale pubbliche o in setting individuali.

Teologia del cinema ed estetica teologica
La teologia del cinema imprime un’accelerazione all’estetica teologica, che aveva riabilitato la figurazione del divino (contro l’iniziale iconoclastia cristiana), in quanto nel cinema vivono ormai immagini-in-movimento (secondo la definizione di Deleuze), alle quali storicamente si è aggiunta una componente sonora (parole, suoni, rumori).

Il trascendentale mancante (il bello) conferma la sua importanza teologica accanto al vero, all’uno, al buono, coinvolgendo la mente e il cuore di chi fruisce dell’epifania multiforme offerta dal film. Il cinema dona rivelazioni sensibili dell’assoluto e lo fa nella linea delle avanguardie artistiche, che hanno sostituito l’arte intrattabile alla vecchia armonia della piacevolezza e hanno preferito la durezza della dissonanza ai clavicembali ben temperati e alle armonie della musica tonale[7].

Il Dio che nessuno ha mai visto, l’assoluto che esige di essere onorato con tutto il cuore, la mente e le forze, dà segni di sé anche in pellicole di soggetto profano e si manifesta con timbri registici diversi: le immagini scorrono come vento impetuoso o terremoto pauroso o fuoco travolgente o vento leggero o pacato sussurro o silenzio svuotato – in analogia all’esperienza di Elia nel Primo libro dei Re. Se non passa dai sensi, se non scuote il corpo, se non accende la fantasia (sull’esempio di colui che guariva i paralitici e dava la vista ai ciechi), ciò che appare prima facie profetico è in realtà un inganno e non merita di venir creduto (così si ammonisce in Mt 24).

Immagini in azione
L’atto di vedere immagini in azione è principio di conversione sia nel primo che nel secondo testamento. Chiamato a confronto dal provocante Giobbe, Dio compare in mezzo all’uragano (Gb 38,1) non solo per raccontare indirettamente al servo la propria signoria divina, ma per mostrargli il film di Behemoth-ippopotamo che si sdraia (Gb 40,16), per abbattere la sicurezza di Giobbe davanti alla visione del Leviatàn-coccodrillo (Gb 41,1), affinchè Giobbe ora possa finalmente vedere con i suoi occhi ciò che prima conosceva semplicemente per sentito dire (Gb 42,5).

Centrale è il tema del vedere nel quarto evangelo. Gesù è l’icona (in azione) inviata e mossa da un autore altrimenti invisibile. Gesù ha visto per primo la verità che ora fa ri-vedere fedelmente al discepolo che gli dà credito. Il Figlio unigenito rivela ciò che nessuno ha mai visto (Gv 1,18). Solo chi viene da Dio ha visto il Padre (Gv 6,46) e appunto Gesù rivendica di aver visto presso il Padre quello che egli ora dice e che i Giudei non credono (Gv 8,38). Chi vede lui, vede colui che lo ha mandato (Gv 12, 45). “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9).

Il cinema struttura una complessità autoriale, in grado di sintetizzare fra loro immagini, movimenti e suoni. L’esercizio di questo potere invita a pensare – in modo nuovo – Dio come il creatore/regista di forme viventi. È divenuto ormai impossibile commentare il mito platonico della caverna senza pensare agli eventi di una sala di proiezione[8].

E lo stesso racconto di Genesi riceve un rimbalzo dalla pratica filmica. Dio comincia un’azione, dà luce, riempie un vuoto, rimedia a tenebra e abisso, taglia e separa ciò che era confuso, controlla la bellezza/bontà di ciò che ha fatto, invita il personaggio umano (fatto a sua immagine privilegiata) a prolungare la stessa attività creatrice. Un’attività che ha donato un mondo all’uomo e non a qualche coorte divina. Poi Dio cessa da ogni opera e consacra “the End”: egli ormai dimora lì, in quella specie di pellicola terrestre che egli ha impresso di luce. Il cinema è una «nuova Genesi».

Il cinema dona un racconto fatto di carne e ossa visibili, all’uomo il quale, affamato di racconti, era privo di un alleato che gli corrispondesse. Il cinema reagisce alla percezione di un mondo ancora irredento, impegnandosi a costruirne un altro, più o meno immaginario, in cui il vivere sia sopportabile e riveli una verità motivante almeno per la durata della visione.

Il narratore narrato
La teologia del cinema porta a fondo la felice definizione di Gesù (offerta dalla teologia narrativa) quale “narratore narrato”. Il pensiero religioso ne riceve uno scossone concettuale anzitutto a livello etico, poiché la narratologia svela che il giudizio morale è un confronto critico tra due narrazioni, tra due ordini di “film”: a) la storia di salvezza, il racconto dell’origine, in cui crediamo, e b) la nostra personale storia biografica, che ci sottopone continuamente a conflitti fra valori.

Poiché l’unica e definitiva icona del Padre è il Figlio fatto uomo, cadono le presunzioni della teologia morale razionalistica. Quest’ultima pretendeva di sapere dalla “natura” ciò che doveva essere fatto o omesso, e pensava di conoscerlo in forma astorica e oggettiva. Alle domande che assillano gli esperti di bioetica (“assistere la procreazione è lecito?”, “è legittimo aiutare a morire?”, “l’idratazione artificiale è obbligatoria?”), occorrerebbe rispondere – a nostro avviso – con un fermo monito preliminare: “raccontami la storia e ti dirò quello che penso”[9].

Senza una trama non comprendo il significato della sequenza. Senza la sequenza non capisco il senso di un gesto. Senza cogliere il significato del gesto non posso esprimere alcuna valutazione sul fotogramma che si vuole giudicare. Nessuna legge del primo testamento resta indenne alla prova “filmica” imposta da Gesù, narratore di parabole e lui stesso parabola di ogni parabola, anche delle parabole che il cinema produce sui vizi, le virtù, il significato del vivere.

Il senso delle tavole della legge date sul Sinai lo capiamo a partire dalla vicenda di liberazione dall’Egitto; il senso della prossimità verso il debole lo intuiamo a partire dal racconto di un samaritano buono e dalla sofferta fedeltà alla giustizia di un nazareno, che preferisce essere trattato come un ladrone piuttosto che rinunciare ad amare i suoi fino alla fine. Il concreto è il Cristo. Regole, leggi, precetti, amputati da lui, sono un’astrazione ambigua.

Il cinema intesse trame che si intrecciano con la trama originalmente individuale (ma di riferimento universale e incondizionato), lungo cui si è snodata la vicenda del Figlio dell’Uomo. Le trame filmiche dialogano con la “trama cristologica”, la attualizzano, la contestano, la interrogano, la prolungano.

L’enigma del male
La specificità di un discorso su Dio condotto secondo la cifra del cinema (fare cinema, andare al cinema) si palesa particolarmente rilevante quando ci imbattiamo nel cosiddetto male genuino. In tali occasioni siamo costretti a riconoscere la presenza nel mondo di un male (fisico/naturale o morale/peccaminoso nella sua causa) che è assurdo e ingiustificabile.

Esso non costituisce una prova maturativa della fede né il prodromo di un bene maggiore. Il male genuino merita la protesta d’innocenza dell’uomo e una lotta tenace.

Ci sono vicende in cui al protagonista, lacerato dal dolore, non è stata offerta alcuna occasione di redenzione né è stata data alcuna forza idonea, sufficiente e proporzionata per reggere il disastro: “I bambini arrostiti dalle bombe al napalm non hanno vissuto alcun processo di maturazione umana. Similmente esistono innumerevoli casi in cui il dolore, nonostante tutta la buona volontà di sopportarlo umanamente e cristianamente, ha effetti deleteri, pone esigenze inaccettabili all’uomo, ne piega e danneggia il carattere, lo costringe a occuparsi solo dei bisogni più primitivi dell’esistenza e lo istupidisce o lo rende cattivo”[10].

Questa tragica esperienza è la stessa che Landi[11] denunciava nei suoi “compianti” ed è quella che contempliamo nel film Luci d’inverno di Bergman: un pastore d’anime vedovo, malato, dubbioso, chiuso; una comunità ecclesiale sempre più rarefatta; l’inspiegabile suicidio di un fedele tormentato da un’angoscia indeterminata.

Sono brani di quelle biografie frantumate, in merito a cui una teologia frettolosamente apologetica svende soluzioni devozionali sedative, e che invece la teologia del cinema prende radicalmente sul serio. Dio esce dal racconto: non agisce più da alleato protagonista o da benefico personaggio ausiliario. Non è più una consolante voce narrante né riusciamo più a individuarlo in un credibile interlocutore o in un testimone di speranza.

Nemmeno osiamo riconoscerlo come l’autore-implicito-nel-testo, un testo divenuto cupamente invivibile. In questi frangenti l’icona antropomorfica di Dio cozza e si dissolve contro lo scoglio del male.

Chi però non smette di cercare Dio, lo pensa come il principio del racconto, la fonte e il sostegno dell’azione di stessa di narrare e di far cinema. Nel cinema, nel mondo “laterale” che apre le sue cattedrali laiche per offrire visioni mai viste, noi pensiamo Dio come l’essere stesso che si lascia narrare, come l’infinito piano-sequenza[12] (l’intuizione è di Pasolini) da cui ritagliamo storie significative, come quel racconto vivente che sembra esso stesso interessato a venir immaginato e narrato.

Il cinema pensa l’enigma del male, inseguendo immagini di salvezza anche nell’ora del lupo, nonostante e attraverso il male che Dio inspiegabilmente tollera e permette, pur essendosi rivelato a noi quale alleato buono e potente. Il cinema riplasma gli sforzi della teodicea incarnando le formule logico-intellettuali di quest’ultima dentro icone sonore in azione. È Dio stesso che ci chiede di portare a visione le possibili alternative al male e di scartare le trame illusorie. Ce lo chiede e ci dà uno spirito di sostegno, di difesa, di aiuto in tale ricerca.

Pensare la verità
Se Dio è il racconto (l’archè del racconto visivo) che ci convoca e ci invita a narrarlo e a portarlo ancora sulla scena[13], noi di rimando diventiamo il racconto in cui crediamo. Il cinema è il luogo di una sequela cristiana scandita attraverso la fruizione di immagini in movimento, animate dal fascino di una verità, che ci vuole per sé.

L’etica della resistenza al male, una resistenza cui il credente dedica la propria precaria esistenza, riposa su uno scambio di cura[14]. Dio ha cura di noi, poichè desidera che noi sperimentiamo la felicità di vederlo e immaginarlo ancora in azione, anche nel tempo del dolore, anche quando materialmente non si lascia trovare. Noi ci prendiamo cura di Dio perché, dando credito al patto che egli unilateralmente ci offre, gli consentiamo di dimorare con noi e in noi, di stare nei nostri occhi, come avvenne nella visione trasfigurata da cui i tre apostoli non potevano e volevano staccarsi (Mt 17,1-9).

Concludiamo. Contro le divaricazioni tra mito e logos, il cinema pensa la verità ed anche la verità di Dio, per come essa si è incarnata nella storia. Il cinema pensa tale verità anche se nello script non ci sono né Dio, né Cristo, né angeli, né preti, né apostoli. Per converso, la teologia pensa il cinema come luogo di rivelazione.

Le immagini del cinema innervano storie inedite, rivelano prospettive impensate, alimentano la speranza visibile di un finale degno, di una giustizia vera, di una vittoria definitiva sul male. Il cinema è il pensiero che dà credito a un annuncio di liberazione.

Il grande cinema, come l’arte well done, strappa dalle fauci del drago rosso il bimbo appena partorito in cielo da una donna vestita di sole (Ap 12,1-6). Al cinema attendiamo di vedere l’horrifying movie di queste doglie a rischio. Il cinema è una cifra estetica per dire, vedere e pensare Dio.

Paolo M. Cattorini è professore ordinario di Bioetica clinica presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Varese.

[1] P.M. Cattorini, Teologia del cinema. Immagini rivelate, narrazioni incarnate, etica della visione, Bologna, EDB, 2020, 131 pagine, 15 euro. L’efficiente Ufficio stampa delle Edizioni Dehoniane di Bologna inserisce nel sito on-line i testi delle recensioni e segnalazioni. Altri commenti mi sono stati espressi oralmente o in scritti privati.

[2] P. Sequeri, nel capitolo “Il senso del discorso teologico sull’agire di Dio”, in AA.VV., Il significato cristiano della sofferenza, Brescia, La Scuola, 1982, pp. 99-110, precisa che solo la rivelazione in Cristo ci autorizza a pensare Dio in modo adeguato. Compatibilità cristologica significa ad esempio che quello “che Gesù non fa e non può fare, Dio non fa e non può fare in rapporto alla sofferenza dell’uomo” (p. 109).

[3] Nel bel volume del cardinale Gianfranco Ravasi, Come in uno specchio. Per una teologia del film, Roma, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, 2020, 46 pagine, 8 euro, l’Autore definisce il regista Ernst Ingmar Bergman (1918-2007) “un teologo ateo” (p. 19), “un teologo agnostico” (p. 21) dalla “domanda bruciante” (p. 22), una figura altissima capace di un prodigioso “insegnamento per immagini” (p. 21).

[4] L’immagine è di F. Nietzsche, La nascita della tragedia. Ovvero grecità e pessimismo, Bari, Laterza, 1981, a cura di P. Chiarini, p. 101.

[5] Cfr. Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Roma, Donzelli, 2002; titolo originale: Transcendental Style in Film. Ozu, Bresson, Dreyer, Oakland, University of California Press, prima edizione nel 1972; seconda edizione nel 2018 con una nuova Introduzione: “Rethinking Transcendental Style” (ripensare lo stile trascendentale), pp. 1-34. Secondo Schrader esisterebbe uno stile cinematografico privilegiato per rappresentare l’assoluto religioso. L’autore si riferisce esplicitamente al divino nel senso di Barth (the Wholly Other) e chiama tale stile transcendental style. Si tratta di un’opzione formale, non quindi di una scelta tematica o contenutistica. È una specifica modalità di trattamento delle immagini. Qualche nostro recensore ha paventato che, seguendo Schrader, la nostra teologia potesse scivolare in un formalismo astratto. Niente affatto. Una direzione d’indagine non smarrisce l’altra ma anzi la esalta. Forma e contenuto, soggetto e oggetto, trama filmica e scelta fotografica, azioni dei personaggi e montaggio delle sequenze, sono frutto di un’analisi che la sintesi critica deve ricomporre assieme, perché li ha scoperti come elementi coabitanti. Erwin Panofsky l’aveva osservato a proposito della prospettiva, il cui carattere simbolico è tale da precedere la divaricazione tra contenuto e contenente, tra le cose mostrate dal dipinto e lo spazio che le raccoglie in una visione miracolosamente unitaria. La forma simbolica, istituita dalla prospettiva, crea una distanza tra l’uomo e le cose che stanno davanti a lui, ma poi elimina tale distanza riassorbendo le cose nello sguardo adottato da chi le osserva (E. Panofski, La prospettiva come ‘forma simbolica’ e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1981, a cura di Guido D. Neri).

[6] E’ la tesi di Nicolas Steeves, Grazie all’immaginazione. Integrare l’immaginazione in teologia fondamentale, Brescia, Queriniana, 2018, da noi recensita ne La Civiltà Cattolica, v. I, q. 4050, 16.III/6.IV 2019, a. 170, pp. 612-613.

[7] Dopo gli studi dell’ estetica analitica in tema di pulchrum preferiamo parlare di un’opera well done invece che di un’opera “bella”. Cfr. A.C. Danto, L’abuso della bellezza. Da Kant alla Brillo Box, Milano, Postmedia, 2008.

[8] Nel 1941 Francis MacDonald Cornford (Fellow of Trinity College, Cambridge) traduce, introduce e annota la versione inglese della Repubblica di Platone (London, Oxford Univ. Press), proponendo alla nota 2 di pag. 228 il parallelo che abbiamo istituito, in merito alla notissima pagina di Repubblica, libro VII, 514 A. Repubblica, libro VII, 514 A. Cfr. la nostra recensione a H. Arendt, a cura di Ilaria Possenti, Socrate, Milano, Cortina, 2015, in La Civiltà Cattolica, 2016, v. I, q. 3974, a. 167, 23 gennaio 2016, pp. 201-202; Cornford è citato a p. 69.

[9] Così inizia il nostro volume Bioetica e cinema. Racconti di malattia e dilemmi morali, Milano, FrancoAngeli, 2° ed. 2006.

[10] K. Rahner, Perché Dio ci lascia soffrire?, in Nuovi saggi, VIII “Sollecitudine per la chiesa”, Roma, Paoline, 1982, p. 555, cit. da Kreiner, Dio nel dolore. Sulla validità degli argomenti della teodicea, Brescia, Queriniana, 2000, p. 22, cit., p. 308. Il duplice significato del termine tedesco lässt (nel titolo: Warum lässt uns Gott leiden?) consente di tradurre perché ci lascia oppure perché ci fa soffrire [cfr. la N.d.T. a p. 543].

[11] F. Landi, Tre film sul Sabato Santo, Bologna, EDB, 2021, 125 pagine, 12 euro.

[12] Piano-sequenza è una sola, lunga inquadratura senza stacchi.

[13] Con le parole del doppio finale aperto del quarto evangelo, potremmo dire che nemmeno il mondo intero sarebbe in condizione di contenere i film sulle cose e i segni che parlano del Dio di Gesù Cristo.

[14] Su questi temi, che sviluppano la teologia-del-cinema in direzione di una teoria dell’alleanza uomo-Dio, un’alleanza che promette una visione e un’azione liberanti, stiamo scrivendo Aver cura di Dio. Un’etica della resistenza al male (manoscritto).