La storia «Sul gommone con Dio via dalle bombe»

Una testimonianza diretta, raccontata in prima persona, di un viaggio che ha cambiato la vita di migliaia di persone come lei: una ragazza siriana curda di 14 anni, Maxima Lava, descrive in un libro appena pubblicato da Mondadori le tappe, gli incontri, le riflessioni più personali, le paure e la grande gioia di riuscire nell’impresa di raggiungere l’Europa.

In ‘Solo la luna ci ha visti passare’ (137 pagine, 17 euro), scritto con la giornalista freelance Francesca Ghirardelli, Maxima racconta nei dettagli la sua esperienza, storia singola fra un milione di storie: nell’arco del 2015 poco più di un milione di migranti e richiedenti asilo sono arrivati in Europa dal mare. Di questo milione, 856mila hanno transitato dalla Turchia alla Grecia, attraverso il mar Egeo.

L’estratto del libro che pubblichiamo descrive la traversata notturna a bordo di un gommone, dalla costa turca fino all’isola greca di Lesbos. Da quella notte è passato esattamente un anno: erano infatti le prime ore del 5 agosto 2015 quando Maxima ha preso il largo, lasciandosi alle spalle la Turchia, insieme ad altre 41 persone. Davanti a lei, ad attenderla, c’erano altre tre settimane di viaggio con lunghissime camminate nei boschi di Macedonia e Serbia, fino a Belgrado, tappa obbligata per richiedenti asilo e migranti che lo scorso anno percorrevano la cosiddetta ‘rotta balcanica’, diretti a nord. Un tragitto ora non più praticabile, dopo la chiusura di molte frontiere e dopo il controverso accordo siglato tra l’Unione Europea e la Turchia, in vigore dal 20 marzo scorso. Maxima è arrivata a destinazione, in Olanda, il 29 agosto.

Mar Egeo, costa turca, alba del 5 agosto 2015.

«Sarà stata mezzanotte. Ci hanno nascosto tra gli alberi che crescevano fino a un passo dalla sabbia. Abbiamo aspettato in silenzio, seduti, fino a notte fonda, insieme a moltissima altra gente, non solo chi era arrivato con noi a bordo del minivan. Altri rifugiati si trovavano sul posto già da prima.

Lì vicino, le case basse di un piccolo villaggio sembravano disabitate. Non si sentiva un rumore. Avevo sonno, gli occhi mi si chiudevano. Anche Sara era stanca. Ci siamo addormentate, nascoste nella boscaglia della spiaggia, sedute fra quella gente a pochi metri dall’acqua.

‘Forza, dài, andiamo!’ C’era una grande confusione quando mi sono svegliata. La gente si alzava in piedi, afferrava i bagagli, mentre i trafficanti turchi preparavano il gommone per la partenza.

Nel buio si muovevano grandi fasci di luce che venivano dalla Grecia, i fari potenti delle navi greche che controllavano se lungo la costa ci fosse qualcuno nascosto. Puntavano anche dalla nostra parte, ma gli alberi ci proteggevano e quando la luce è arrivata su di noi, nessuno si è accorto che eravamo lì.

Il gommone era pronto. Mi sembrava piccolo. Sarà stato lungo sei metri e largo appena due. La gente si muoveva verso l’acqua e io, che mi ero appena svegliata, mi sono messa a correre, stringendo la mano di zio Lazghin e quella di Sara. Ci siamo lanciati sul gommone e siamo arrivati fra i primi. Per questo ci siamo sistemati al centro, nella parte piatta. A me pareva ci fosse posto solo per una ventina di persone, ma alla fine sono saliti tutti. Solo quando eravamo già al largo, qualcuno si è ricordato di contare i passeggeri: eravamo quarantadue.

I trafficanti ci hanno abbandonato alla nostra sorte. ‘Non veniamo di là, il gommone lo guidate da soli’ hanno detto scendendo sulla spiaggia. Nessuno, però, sapeva come si conducesse un’imbarcazione del genere, nessuno lo aveva mai fatto.

A bordo non si respirava, mancava l’ossigeno. Certo, eravamo all’aperto, ma sopra di noi erano ammassate altre persone. E anche le loro valigie e le borse ci coprivano.

Per questo durante la traversata non ho visto nulla. A parte la luna, che quella notte era splendente. Solo il mio viso restava scoperto, immobile rivolto in su. Non potevo girare la testa e anche il resto del corpo era bloccato dalle persone che avevo addosso. Alcune letteralmente sedute su di me. Non potevo muovere le gambe, non le sentivo più, nemmeno le dita, non capivo se fossero rotte.

Poi l’acqua ha cominciato a entrare e a fermarsi sul fondo del gommone. E siccome muoversi era difficile o proprio impossibile, non potevamo buttarla fuori, non c’era spazio per farlo.

Mi sentivo la schiena tutta bagnata. Non erano gli schizzi, era proprio una pozza che aumentava di livello all’interno del gommone, a mano a mano che andavamo avanti.

Chi era seduto sui bordi aveva i piedi e le caviglie dentro l’acqua, noi, sotto, eravamo immersi.

Alcuni passeggeri hanno cominciato ad agitarsi, a dire che due navi, una della polizia greca e una turca, si stavano avvicinando. Io non riuscivo a vedere niente, perché ancora non potevo muovere la testa.

Una delle navi, credo quella turca, si è fatta sempre più vicina, ma in quel mo- mento la fortuna ci è venuta in aiuto: siamo riusciti a spostarci velocemente in un punto invisibile ai poliziotti, girando attorno alla loro stessa imbarcazione. Il fascio di luce del faro ci è passato a soli pochi metri, ma non ci ha illuminato: quanto siamo stati fortunati!

‘State in silenzio, zitti!’ ci ripetevamo a vicenda. Eravamo talmente vicini che uno di noi ha toccato con la mano l’enorme scafo. Non scorgendo nessuno in mare, i turchi si sono allontanati. Quella notte solo la luna ci ha visti passare.

Quando siamo stati abbastanza distanti, i passeggeri del mio gommone hanno cominciato a ripetere: ‘Dio, salvaci, salvaci! Portaci in salvo, lasciaci arrivare di là!’.

Stiamo davvero vivendo questi giorni? Sono la realtà oppure solo un sogno? Non avrei mai, mai immaginato di attraversare prove così dure.

Non ho mai pianto durante il viaggio. Tranne nei momenti in cui ho ripensato alla mia famiglia, alla possibilità di non rivedere più nessuno di loro.

‘Perché piangi?!’ mi chiedo. Quando piango mi sento la persona più debole del mondo. Allora mi dico: ‘Maxima, non sei debole. Sei la più forte’.

Io non perdo la speranza. Non importa quello che accade, arriverò dove siamo diretti. La speranza è ciò che tiene vivi gli uomini. Se non ce l’hai, ti senti schiacciato e sfinito da quello che ti accade, dal pensiero di quanto sia complicato vivere. Credo che la vita possa diventare davvero più semplice se solo si dà speranza a ciò che si fa. Così si rende tutto più facile. Il mio primo nome è Maxima, ma il secondo che mio padre e mia madre hanno scelto per me è Lava, che vuol dire ‘speranza’.

Così siamo andati avanti, continuando a imbarcare acqua, fino a quando ho sentito come lo scossone di un terremoto sotto di noi, proprio come se la terra tremasse sotto il mare. Ho pensato che saremmo morti tutti.

Invece, erano le rocce che grattavano da sotto: avevamo raggiunto l’isola.

Tutti si sono precipitati a terra. Urlavano: «Allah è il più grande!». Mia cugina e io eravamo confuse, non sapevamo se piangere o ridere. Non appena siamo scese, Sara ha cominciato a ridere senza più fermarsi, anche se un attimo prima stava per lasciare andare le lacrime.

Sembravamo impazzite. La gente ringraziava Allah e in quel momento il sole è sorto. È stato come se Dio ci avesse sollevato con le sue mani, gommone e tutto, e ci avesse appoggiato dall’altra parte del mare. Ci siamo abbracciati. Ho stretto mia cugina e mio zio e anche gli altri passeggeri. Quindi ci siamo tolti il giubbotto di salvataggio, lo abbiamo abbandonato sugli scogli, ho afferrato il mio zaino, che era pesantissimo per tutta l’acqua che ci era entrata, e ho cominciato a camminare».

Avvenire