La storia dei fratelli Luigi e Aurelio Luciani, uccisi dalla mafia

Il monumento dedicato a Luigi e Aurelio Luciani a San Marco in Lamis

È certamente utile una televisione di denuncia, di passione per la giustizia, di racconto del dolore affinché non ve ne sia dell’altro. Una televisione di sostegno allo Stato per illuminare zone buie, ammalate del Paese, di abbraccio, consolazione e voce alle famiglie sofferenti di persone innocenti morte in modo inaccettabile, per mano criminale.

Con questo obiettivo, il programma «Cose nostre», in onda dal 2016, propone nella serata dell’8 luglio, su Rai Uno, uno speciale sulla storia tragica dei fratelli Luigi e Aurelio Luciani, uccisi barbaramente perché avevano visto qualcosa che non dovevano vedere, perciò, secondo la feroce logica mafiosa, sarebbero diventati testimoni scomodi, pericolosi. Allora sono stati uccisi dalla criminalità organizzata che avvelena la loro terra pugliese; sono stati feriti a morte senza pietà, lasciati sotto il sole bollente della piena estate, una mattina d’agosto del 2017, nel paesaggio splendido che amavano, che lavoravano con quel sacrificio silenzioso, quotidiano, che solo l’amore per le proprie radici rende sostenibile, leggero, insieme a quello per una famiglia sana, unita, e per un mestiere onesto.

«D’estate si lavorava tanto — ricorda Marianna, la moglie di Aurelio — e quindi non si andava al mare». La dolcezza, però, rammenta la donna insieme ad Arcangela, la moglie di Luigi, brillava nel carattere dei loro mariti: due fratelli che si rispettavano, rappresentanti entrambi di quel bene che insieme al suo contrario abita la terra del Gargano, dove le grotte in cui sono state ritrovate armi, droga e resti umani, come spiega il maggiore dei carabinieri Davide Papasodaro, circondano luoghi di pace e di pellegrinaggio come Monte Sant’Angelo.

Di fronte alla vecchia stazione di San Marco in Lamis, sulla pianura ampia dove oggi un grande Tau di pietra bianca omaggia la memoria di Aurelio e Luigi Luciani, fatalmente, per questione di secondi, si sono toccate, il 9 agosto del 2017, quelle mani «che si fanno forti attraverso le armi — dice ancora Arcangela — ma che senza le armi non sono niente», e «le mani nude di chi metteva semi nella terra per dare vita».

È bello, allora, leggere come utile alla collettività, al futuro, la storia dolorosa di Luigi e di Aurelio, quella delle loro mogli e dei loro figli, alcuni dei quali ancora molto piccoli e ai quali sarà difficile spiegare l’assurdo accaduto. La storia, anche, dell’anziano padre Antonio, che continua a lavorare quelle zolle, quelle piante, quella campagna amata, con un dolore immenso dentro, perché tutto gli ricorda i suoi due figli e vorrebbe almeno sapere chi è stato a portarglieli via.

Consola, offre speranza, leggere la storia di questi due innocenti, sulla cui lapide è scritto «offro il mio corpo in sacrificio per voi», come la possibilità di alzare il velo sulla mafia che  abita quei territori, ma sopra la quale, spiega il procuratore distrettuale antimafia di Bari, Giuseppe Volpe, «c’è stato silenzio per troppo tempo», nonostante un numero altissimo di morti ammazzati con colpi di pistola sul viso, perché così il messaggio è chiaro, forte, e ai parenti del defunto non rimane nemmeno la possibilità di accarezzare il volto della persona scomparsa.

E invece ora, spiega la voce della giornalista Emilia Brandi, conduttrice e autrice del programma, proprio la morte dei fratelli Luciani «ha obbligato lo Stato a prendere atto della gravità di un fenomeno mafioso sottostimato per troppi anni».

Ripercorre la vicenda di Luigi e Aurelio raccogliendo le testimonianze sui luoghi dove sono avvenuti i fatti, Brandi, accostandole a foto e filmini privati che raccontano la normalità e la bellezza della famiglia Luciani. Poi procede  a una ricostruzione storica meticolosa di quel sistema malavitoso, utilizzando anche repertori di telegiornali regionali Rai. Alla fine la sua voce spiega che «oggi, aspettando giustizia per i fratelli Luciani, le forze dell’ordine hanno messo in campo i loro migliori uomini per combattere questa guerra», questo conflitto tra diverse famiglie che dura da decenni: prima i Libergolis contro  i Primosa-Alfieri e poi i Libergolis contro i Romito, spiega lo speciale.

Un dilagare di violenza dopo amicizie saltate in aria per un uso dissennato, distruttivo dei beni materiali, degli animali e della terra, della proprietà e dei confini, del concetto stesso di famiglia, portatrice, in questo caso, di un ciclo di morte mediante una faida sanguinaria sempre più infiammata da una sete di potere che si nutre di ogni metodo criminale, con alleanze sempre fragili davanti all’avidità di denaro.

Una guerra sotterranea, a volte, anche per lunghi periodi, come un fiume carsico che però, improvvisamente, risale in superficie e uccide, come quella mattina d’agosto in cui «l’obiettivo dei killer — spiega Giuseppe Volpe — era senza dubbio Mario Angelo Romito», ma vi finirono in mezzo «persone perbene che non erano nel posto sbagliato — ci tiene a precisare il  procuratore antimafia di Bari — ma nel posto giusto, dove avevano il diritto di stare», per quell’attività quotidiana che nobilmente portavano avanti da sempre.

«Cose tra mafiosi» sentì dire Marianna mentre faceva la spesa, quando già iniziava a circolare la voce di una sparatoria con morti dalle sue parti. «L’importante è che non ci siano di mezzo innocenti» commentò lei. Si sbagliava: non avrebbe più rivisto suo marito e suo cognato. «Due eroi civili» li definisce giustamente Giuseppe Volpe, ai quali altrettanto giustamente una televisione utile, fruttuosa, offre oggi i propri strumenti perché possa essere garantita loro la memoria, e magari ai loro cari, almeno la giustizia.

di Edoardo Zaccagnini / Osservatore Romano