La scuola non finisce l’ultimo giorno… ma prima

Quest’ultima lezione l’avevo pensata diversa, non me l’aspettavo… Ma a trovare la chiave per capire il motivo di questi silenzi, sono stati loro, più saggi di me

L’ultimo giorno di scuola è sempre atteso da alunni e insegnanti, a volte caricato di un significato profondo da ricercare e scoprire. Almeno questo è l’errore che ho fatto io…

Cercando le parole giuste, chiedendo ai ragazzi quali fossero le sensazioni di quest’ultimo giorno, è stato in realtà molto difficile scovare un senso, anche solo un’emozione ben definita. Alle mie domande, “Come ve l’aspettavate?”, “Come vi sentite?”, ho ricevuto molti silenzi. Una scoperta per me, anzi di più, una delusione. Tanto che a poco a poco, insieme a loro, ci siamo resi conto che la memorabilità appartiene spesso più all’inizio che alla fine.

“Come le canzoni o le poesie” dice un alunno “l’inizio lo sanno sempre tutti”. È vero, il primo verso è spesso la parte più ricordata. Elenchiamo insieme alcune opere della letteratura, le più famose: chi non sa citare il «Cantami, o Diva, del Pelìde Achille» dell’Iliade o il «Narrami l’uomo dal multiforme ingegno» che inizia l’Odissea, il dantesco «Nel mezzo del cammin di nostra vita», come anche «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori» dell’Orlando Furioso, fino al manzoniano «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno» dei Promessi Sposi.

L’incipit è fondamentale, è per il narratore, come scriveva Calvino, «l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare» (Lezioni Americane). Ed è così anche per gli alunni: l’inizio del liceo, dello sport, di qualsiasi attività, anche di un amore, è scegliere tra le miriadi di possibilità quella che sarà la loro, e solo loro. È atto di libertà, un momento meraviglioso che s’incastona nell’eternità: quando s’inizia una nuova avventura si è entusiasti, curiosi, pieni di paure e dubbi, ma anche di speranza ed energia. «Vorrei poter scrivere un romanzo che fosse solo un incipit, che mantenesse per tutta la sua durata la potenzialità dell’inizio» scriveva ancora Calvino (Se una notte d’inverno un viaggiatore).

La potenza evocativa dell’inizio non è però la stessa della fine: “La fine non la sa mai nessuno” continua l’alunno. Difficile è infatti citare l’ultimo verso delle opere di prima. Come vanno a finire?, chiedo. I ragazzi non lo sanno. In realtà, però, se ci penso, a parte «l’amor che move il sole e l’altre stelle» della Divina Commedia, neanch’io onestamente me li ricordo. Tant’è che con i ragazzi dobbiamo armarci di pazienza e cercare: e scopriamo che l’Iliade termina con «gli estremi onor renduti / al domatore di cavalli Ettorre» e l’Odissea con l’accordo tra Ulisse e i Proci grazie ad Atena, «che a Mentore nel corpo e nella voce / rassomigliava»; nell’Orlando Furioso alla fine fugge all’inferno l’anima di Rodomonte «che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa».

Questo gioco piace ai ragazzi che cercano le opere che hanno amato, per vedere che «mai vicenda fu più dolorosa / di questa di Giulietta e di Romeo»… “Che tristezza” chiosa l’alunna; oppure quelle che devono leggere per la maturità: «Eh, caro mio… io sono il fu Mattia Pascal»… “Vabbè, è il titolo, che fantasia” sempre lei. E a questo non sfugge per loro la stessa Bibbia che con l’Apocalisse termina «La grazia del Signore Gesù sia con tutti»… “Come in chiesa! Pensavo chissacché” fa l’alunno.

Il finale spesso delude, anche se non è triste o amaro, è sempre difficilmente penetrabile, fosse anche riferito alla scuola: l’ultimo giorno è vissuto sì con grida di giubilo e gavettoni d’acqua, ma i ragazzi stentano a dire realmente cosa provano e, se anche ci provano, sono più malinconici che felici.

Rimango pensoso, quest’ultima lezione l’avevo pensata diversa, non me l’aspettavo…

Ma a trovare la chiave per capire il motivo di questi silenzi, però, è un alunno, che scopro più saggio di me, il quale mi dice che in realtà la scuola è già finita da un pezzo: “Non è oggi la fine, prof, la fine c’è già stata prima”. So cosa intende: l’ultimo giorno è solo l’ultimo giorno, ma il vero finale si vive prima, e ognuno ha il suo, che è solo suo, come quell’inizio scelto tra miriadi di possibilità. Anche la fine vera è per ognuno diversa, se non individualmente scelta, è personalmente riconosciuta; e non è un ultimo suono di campanella che riesce a schiacciare questa autenticità.

Leggendo le ultime parole di quelle grandi opere letterarie, sembra proprio che sia così: non sono le ultime parole la vera fine, la vera fine è “il” fine a cui l’opera tendeva, ciò su cui essa si basava e che voleva trasmettere, che avviene ben prima della conclusione, perché questa è solo il momento in cui si mette il punto. Che è poi proprio quello che scriveva ancora Calvino riguardo il finale di un libro: «comunque essa finisca, qualsiasi sia il momento in cui decidiamo che la storia può considerarsi finita, ci accorgiamo che non è verso quel punto che portava l’azione del racconto, quello che conta è altro, è ciò che è avvenuto prima».

Anche i Vangeli finiscono un po’ in sordina, con la testimonianza dell’evangelista (Giovanni), il ritorno a Gerusalemme e la partenza degli Apostoli (i Sinottici). La vera fine, il vero fine dei Vangeli è la Resurrezione, che c’è ben prima dell’ultima parola. L’ultimo giorno di scuola non è percepito come la fine perché non lo è ed ecco il perché di quei silenzi alle mie domande: nella vita scolastica dei miei alunni, c’è già stata una resurrezione ben prima di quell’ultimo giorno, magari è stata quell’interrogazione di Inglese con la quale hanno scampato il debito, o quel compito di Italiano durante il quale è venuta l’idea buona per la tesina dell’esame, forse è il giorno che hanno capito cosa vogliono fare nella vita, o magari quel momento in cortile quando hanno parlato con un professore che ha raccontato di sé trattandoli da adulti. C’è già stata per ognuno una resurrezione, che li ha fatti sentire rinati, nuovi, dando senso a un percorso, facendo sì che l’ultimo giorno si concluda già con quella consapevolezza acquisita e che ormai possa servire solo a salutarsi prima delle vacanze (o dell’esame).

E cosa rimane a un prof che voleva semplicemente sapere come si sentivano gli alunni il loro ultimo giorno di scuola? Forse la speranza e la paura insieme che hanno tutti gli insegnanti alla fine dell’anno, quel pensiero con il quale Manzoni conclude la sua storia: «la quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta».

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