La scienza, la tecnologia e la «questione MORALE»

Colpa della scienza, se l’onnipotenza ci dà le vertigini. E colpa della tecnologia, se di essere solidali con gli altri sembriamo sempre meno capaci. Ma sarà davvero scienza, sarà veramente tecnologia quella che tanto spesso vediamo messa sotto accusa? È il dubbio attorno al quale si è sviluppato il confronto tra studiosi di diverse discipline scientifiche svoltosi giovedì 9 giugno presso la redazione milanese diAvvenire, nell’ambito dei forum attraverso i quali il nostro quotidiano intende affrontare, da una pluralità di prospettive, la trasformazione antropologica in atto. Nel corso dei precedenti dibattiti il combinato disposto fra scienza e tecnologia è stato spesso chiamato in causa, in particolare per quanto riguarda il caso-limite della maternità surrogata. Un tema, questo, che riguarda direttamente le competenze di Eleonora Porcu, responsabile del Centro di infertilità e procreazione medicalmente assistita dell’Università di Bologna, ma che non è estraneo alle ricerche di Michela Balconi, neuropsicologa dell’Università Cattolica di Milano, e dello psichiatra e neuroscienziatoPietro Pietrini, direttore dell’Imt di Lucca. Insieme con loro è stato invitato un autore molto noto ai nostri lettori, il teorico dell’informazione e narratoreGiuseppe O. Longo, tra i primi in Italia a esplorare le frontiere del cosiddetto “postumano”.

Avvenire: Partiamo dalla domanda che molti si fanno: è giusto indicare nella scienza e nella tecnologia le maggiori responsabili dei mutamenti, spesso clamorosi, di cui siamo testimoni?
Longo: «Prima di rispondere dobbiamo fare lo sforzo di ricordare che i termini “scienza” e “tecnologia” non sono affatto sinonimi. Con il primo ci riferiamo al tentativo di decifrare la complessità del reale, con il secondo a un dispositivo che, al contrario, mira a nascondere quella stessa complessità sotto un’apparenza socievole, ammiccante. Da questo punto di vista non è errato affermare che nella tecnologia agisce una componente magica, in virtù della quale questa la tecnologia stessa tende ad autoalimentarsi, a comportarsi come se disponesse di una volontà autonoma, indipendente da quella degli esseri umani. E con questo siamo a uno snodo decisivo: la tecnologia può essere considerata uno strumento, d’accordo, ma è comunque uno strumento completamente diverso rispetto agli altri di cui siamo serviti nel corso della nostra storia. Gli esseri umani la adoperano, e in questo non c’è differenza tra uno smartphone e una scheggia di selce. Ma nel momento stesso in cui viene impiegata la tecnologia retroagisce sull’uomo e così facendo lo trasforma. Quando scriviamo al computer, per esempio, non solo scriviamo in modo diverso rispetto a come faremmo a mano, ma scriviamo anche qualcosa di diverso. Una volta che l’abbiamo indossata, la tecnologia ci rende differenti, non siamo più gli stessi e, con tutta probabilità, non potremo più tornare indietro. È la genesi di quello che ho proposto di chiamare homo technologicus, caratterizzato da una simbiosi con la macchina pressoché impossibile da districare. Appartengono a questo processo una serie di fenomeni non del tutto sovrapponibili tra loro, che vanno dall’emergere dei cosiddetti “nativi digitali” fino al ritorno di alcuni miti classici, primo fra tutti quello per cui il desiderio di onniscienza si traduce in pretesa di onnipotenza. Non per niente, alcune questioni che in passato erano appannaggio della teologia, come l’attesa di un’immortalità ultraterrena, sono oggi affrontate me- diante il ricorso a strumenti tecnologici, come quelli che dovrebbero garantirci l’amortalità terrena, la condizione di artificiale leggiadria giovanile ed eterna disinvoltura apparente protratta fin dentro la vecchiaia».

Balconi: «Concordo con il quadro che è stato appena tracciato. Nelle nostre esistenze tecnologia e scienza sono diventate sempre più importanti e in alcuni contesti finiscono addirittura per coincidere, almeno laddove la tecnologia permette la realizzazione di importanti progetti scientifici. Molti processi quotidiani ne risultano facilitati, anche essere curati o guariti appare meno difficile che in passato. Godiamo di un’esistenza migliore e più lunga, in una dimensione che talvolta sconfina decisamente nella dimensione del magico. Ma qual è il costo nascosto di questi benefici evidenti? Quali trasformazioni si stanno verificando a livello mentale e cognitivo? Su questo ormai non ci sono dubbi: avvalersi della tecnologia porta a modificare qualcosa dentro di noi. Il problema è che ancora non sappiamo che cosa esattamente venga modificato, né in che modo. Di sicuro il concetto di attenzione sta assumendo un significato diverso rispetto a quello che aveva solo pochi anni fa, e considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito dell’uso della tecnologia come strumento relazionale. Una conversazione a distanza non permette la stessa interazione garantita da una conversazione in presenza, con tutta una serie di implicazioni che stanno già rivoluzionando i vari contesti di socializzazione. Non sto esprimendo un giudizio, sto solo prendendo atto della realtà in cui ci troviamo a vivere e pensare. Il tentativo, semmai, è di comprendere che cosa si muove dietro lo sfondo magico che la tecnologia disegna con insistenza sempre maggiore. La mia impressione è che in tutto questo sia presente un forte desiderio di controllo, riconoscibile anzitutto nell’ambito delle relazioni, come se attraverso la tecnologia cercassimo di arginare sul piano psicologico qualcosa che altrimenti resterebbe al di fuori della nostra portata. Per converso, questa volontà di controllo denota una grandissima fragilità, molto simile a quella che dichiariamo implicitamente quando, anziché affidarci al nostro intuito spaziale, ricorriamo al navigatore per trovare la strada da percorrere. Non ci sarebbe nulla di male, non fosse che più passa il tempo più cresce il rischio di non riuscire a muovere un passo senza le istruzioni dello smartphone. Perché un dato è ormai evidente: quali che siano le modalità specifiche, la trasformazione ha già assunto un carattere irreversibile».

Pietrini: «La tecnologia fa leva su un elemento spesso trascurato. Dal punto di vista evolutivo l’essere umano presenta svantaggi molto accentuati nei confronti delle altre specie animali, che si emancipano dalle cure parentali ben prima di noi. Un cucciolo di elefante è in grado di stare in piedi da solo pochi secondi dopo la nascita, a differenza di un bambino, che per trovarsi nella stessa condizione dovrebbe disporre di una gestazione assai più lunga di nove mesi. Nell’essere umano questi svantaggi sono però bilanciati dallo straordinario sviluppo degli strumenti cognitivi, testimostanziali già dalla conformazione della corteccia frontale e prefrontale, del tutto priva di riscontri nelle altre specie animali. Da questo patrimonio derivano due capacità che appartengono all’uomo da sempre, molto prima dell’attuale affermarsi delle tecnologie. In primo luogo, siamo in grado di interrogarci sul motivo per cui la realtà è come è, sul perché accade quello che accade. La ricerca della causa è, com’è noto, all’origine del pensiero filosofico e scientifico già nell’antica Grecia e va di pari passo con la consapevolezza, altrettanto unica nel panorama animale, della nostra finitudine. Da un lato ci chiediamo quali leggi regolino il moto del Sole, dall’altro sappiamo che il Sole sarà ancora al suo posto quando noi non ci saremo più. È da questa capacità di interrogazione che deriva la scienza, alla quale va immediatamente affiancato il secondo elemento che ci contraddistingue, ossia lo sviluppo di strumenti sempre più sofisticati, che si identificano da ultimo con la tecnologia. Ci siamo spinti molto in avanti su questa strada, fino a disporre di una facoltà ritenuta a lungo impensabile, quella che oggi ci permette, se lo vogliamo, di scardinare le leggi biologiche. Diagnosi prenatali e interventi chirurgici in utero sono già una realtà, presto saremo in grado di effettuare operazioni di ingegneria genetica. C’è un guadagno in questo? Certo che sì. Basti pensare che all’inizio del Novecento la vita media in Europa era di 37 anni. E poi c’è internet, la vera rivoluzione del secolo scorso, che ha abbattuto le distanze nel tempo e nello spazio. Mentre la scienza spingeva sempre più in là i confini della nostra ignoranza, però, qualcosa è andato perduto. La capacità di tollerare la frustrazione, in primo luogo, quella forza potentissima che ci permette di credere in noi stessi e nel nostro lavoro anche a fronte di rifiuti e fallimenti. Una risorsa indispensabile per la stessa ricerca scientifica e che ormai, nell’era della messaggistica istantanea e della soddisfazione immediata, si è fatta sempre più rara».

Porcu: «Mi permettete una piccola confes- All’inizio del mio percorso di studi ero attratta dalla filosofia più che dalle discipline scientifiche. Mi appassionava, appunto, l’idea di esplorare i motivi ultimi dell’esistenza umana, confrontandomi con le grandi domande del pensiero. A un certo punto mi sono accorta che questo non mi sarebbe bastato. Accostarmi alla medicina, per me, non ha affatto significato rinunciare alla dimensione della ricerca di senso, che si è fatta semmai più radicale e profonda. La struttura biologica è parte di noi, conoscerla meglio permette di sapere qualcosa di più e di più preciso sull’uomo. Particolarmente rivelatrice, almeno per me, è la dimensione riproduttiva e procreativa, ovvero l’insieme dei processi che portano alla formazione di una nuova vita. Un campo d’indagine abbastanza negletto, almeno fino a qualche decennio fa. Poi, nel 1978, tutto è cambiato. La nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita in provetta, ha comportato un’accelerazione incredibile, che ha prodotto lo stravolgimento di molte nozioni basilari della biologia. Ormai non ce ne rendiamo più conto, ma portare gli embrioni fuori dal corpo della madre è stata e rimane una delle trasformazioni più imponenti nella storia dell’umanità. Un evento al quale non eravamo preparati, semplicemente perché non riuscivamo neppure a immaginarlo. Fino a un’epoca recentissima non eravamo in grado di interferire sull’embrione durante la gestazione. L’aborto stesso interrompeva questo processo spontaneo, ma non lo modificava. Oggi, invece, le procedure di riproduzione assistita permettono di mettere le mani su qualcosa che per millenni era rimasto per noi indisponibile. Stiamo parlando di progresso scientifico? Assolutamente no, con buona pace di una retorica sempre più diffusa, che dal dibattito mediatico si è ormai spostata in sedi che dovrebbero essere tenute a una maggior neutralità, come le aule dei tribunali. Per effettuare una fecondazione eterologa o per portare a termine una maternità surrogata qualche nozione scientifica ci vuole, si capisce, ma il resto lo fa la tecnologia. Il resto, più che altro, lo fa una speculazione commerciale che ipocritamente si maschera da progresso scientifico. Lo ripeto con estrema convinzione: le trasformazioni che si sono susseguite in questi anni nel mio campo di ricerca non sono la conseguenza di nuove scoperte, sono soltanto innovazioni tecnologiche favorite da una logica commerciale, la stessa che ci induce ad accaparrarci il più recente apparecchio digitale. Ma tutto questo non può non avere conseguenze soniato sull’essere umano. L’esaltazione del desiderio individuale (particolarmente accentuata nella ricerca di un figlio a tutti i costi) non può non produrre una trasformazione il cui costo sarà pagato dalle generazioni future, da questi bambini nati dalla combinazione casuale di gameti fortunosamente recuperati qua e là. Smascherare l’azione dei persuasori occulti, che con le loro speculazioni affaristiche stanno distruggendo i fondamenti della civiltà, è un compito che è sempre più urgente assumere, e proprio per tutelare i valori della scienza».

Quindi il problema non sta negli strumenti, o nel metodo, ma nelle premesse con cui sono adoperati e negli obiettivi ai quali vengonopiegati?
Pietrini: «L’intreccio è molto complesso, in effetti. Una volta che, come ci è stato appena ricordato,diventa possibile scardinare i processi biologici,le questioni etiche che si pongono con urgenza sempre maggiore. Una su tutte, quella per cui un figlio non è un oggetto e non può darsi, di conseguenza, un diritto oggettivo al figlio. Se così fosse, diventerebbe legittimo esercitare un qualche diritto sugli altri esseri umani anche in contesti che esulano dalla procreazione medicalmente assistita. La mia sensazione è che spostare l’accento sulle pratiche riproduttive sia un modo per sottrarsi al fatto che l’infertilità è sempre, per definizione, un problema di coppia, nel quale la biologia gioca un ruolo rilevante, ma non esclusivo. Molti fattori, anche di ordine psicologico, intervengono nel favorire o impedire il concepimento. Per una coppia è possibile avere figli come non averne, in un orizzonte naturale che andrebbe contemplato con prudenza. Prima ancora di impegnarci spasmodicamente per eliminare un impedimento biologico, dovremmo interrogarci su quali sono le ragioni per cui quello stesso impedimento esiste. E con questo si ritorna al dato culturale di cui abbiamo discusso in precedenza, all’ormai endemica intolleranza nei confronti della frustrazione che tanto spesso ci rende incapaci di comprendere la bellezza di ciò che già abbiamo e ci obbliga invece a cercare sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso di cui, all’improvviso, non possiamo più fare a meno».
Balconi: «Sì, l’essere umano non è soltanto biologico, eppure è dentro la biologia in ogni momento della sua esistenza. Disponiamo di strumenti che ci permettono di valicare molti limiti, ma più importanti ancora sono le motivazioni che ci spingono a compiere un passo tanto impegnativo. Da dove viene il desiderio di andare oltre? Da molto lontano, ci risponde la psicologia, considerato che la tendenza a considerare i figli come qualcosa di proprio non è solamente un portato della tecnologia, ma una costante che si ripete nel tempo. La novità rispetto al passato è che, prima dell’avvento delle pratiche con cui ci stiamo confrontando, non eravamo in grado di modificare il processo della procreazione. Ora che questo è diventato possibile, non è più il figlio in sé a essere oggetto del nostro desiderio, ma il figlio così come lo vogliamo. A interessarci non è solo la discendenza, ma la versione migliorata di noi stessi che attraverso la discendenza siamo convinti di ottenere. Ci muoviamo, una volta di più, nell’ambito di un egocentrismo fortemente narcisista, tanto perentorio nella sua pretesa di governare il corso degli eventi quanto fragile nei suoi presupposti. L’inatteso ci spaventa, per questo facciamo di tutto pur di veder realizzate le nostre attese. Attenzione, però, perché il desiderio originario non sarebbe in sé sbagliato. Problematici sono semmai gli effetti di questo nostro modo di agire, effetti che non approfondiamo abbastanza. Prevalgono i preconcetti, i convincimenti ideologici, e così si evita sempre di affrontare la questione fondamentale: essere migliori (quale che sia il significato che attribuiamo a questo termine) ci consente di essere più felici? La mia possibilità di esercitare il controllo contribuisce alla felicità mia personale, delle persone che mi stanno accanto, della stessa comunità?».
Longo: «Qualcuno che sicuramente trae vantaggio dalle trasformazioni che stiamo descrivendo c’è, ed è il complesso delle multinazionali della vita, se così vogliamo definirle. Una deriva commerciale che è già stata denunciata e che purtroppo risulta spesso inavvertita, e proprio a causa del modificarsi dei processi di attenzione che la tecnologia produce in noi. Il cervello umano funziona a due velocità. Una rapida, immediata, istintiva, che ci accomuna agli altri animali. Vediamo un frutto, capiamo che è buono da mangiare, allora ce ne appropriamo. Vediamo un predatore, capiamo che vuole mangiarci, allora scappiamo. Esclusivamente umana è invece la dimensione della lentezza, sulla quale si fondano la riflessione, l’elaborazione teorica e, in definitiva, la civiltà stessa. Se la mettiamo sul piano della rapidità, non c’è partita: le macchine ci batteranno sempre, lo fanno già da anni e questo non fa altro che aumentare il nostro senso di frustrazione. Tutto sta a decidere se la tecnologia sia destinata a sostituirci o se, in alternativa, possa diventare nostra alleata. Non sto vagheggiando scenari futuribili, per quanto continui a ritenere che la fantascienza, con le sue simulazioni mentali, costituisca un’eccellente risorsa cognitiva. Ma restiamo al nostro presente e proviamo a ricapitolare quello che è accaduto con la diffusione di internet. L’estensione della rete su scala globale ha dato luogo a una forma di intelligenza connettiva altrimenti inimmaginabile, una sorta di creatura planetaria che ci permette, tra l’altro, di svolgere in modo più veloce e capillare l’attività di ricerca scientifica. Nello stesso tempo, però, diventa molto alto il rischio di adagiarci, di affidare all’intelligenza connettiva compiti che in precedenza avremmo affrontato direttamente. Come se non bastasse, l’ossessione di essere sempre in rete, sempre connessi, si traduce in una continua frammentazione del tempo, che rende pressoché impossibile una concentrazione adeguata. Anche su questo fronte, ancora non riusciamo a valutare quali possano essere gli effetti della trasformazione. Alcuni entusiasti si sono spinti a prefigurare la categoria dei “figli della mente”, intelligenze robotiche alle quali trasferire il nostro patrimonio di memorie e conoscenze. Fattibile? Probabilmente sì, ma questo significherebbe spezzare l’unità su cui si fonda l’essere umano. In generale, purtroppo, siamo diventati molto più bravi a fare che a prevedere».
Porcu: «Siamo anche meno liberi, se è per questo, nonostante si insista nel proclamare il contrario. La scienza, tanto per cominciare, non è mai neutrale, presuppone sempre una scelta di campo, gode di una libertà limitata che si commisura su quella delle persone. C’è un argomento polemico che trovo ormai intollerabile, ed è quello per cui l’opposizione a una determinata pratica non potrebbe tradursi nella limitazione della libertà altrui. Siete contro la maternità surrogata? Liberi voi di non farvi ricorso, liberi noi di servircene. Si tratta di una mistificazione gigantesca, che riduce la realtà a una serie di alternative ostinatamente presentate come indifferenti. Non è così, le pretese conquiste di libertà non sono altro che prodotti lanciati sul mercato dalle multinazionali alle quali molti medici e ricercatori, specie nel campo della fecondazione assistita, sono ormai assoggettati. Se non interveniamo per tempo, sarà la scienza stessa a soccombere».

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