La rivoluzione di Raffaello

Raffaello «Sposalizio della Vergine» (1504, particolare)

Gli inglesi la definirebbero una uneventful life, cioè una vita disadorna di fatti rilevanti. Un profilo, questo, che in teoria ben si attaglierebbe a Raffaello, un artista — scrive Luca Nannipieri — «lontano dalle voglie della modernità».

«Non ha ucciso nessuno, non si è fatto di droga, non ha avuto amanti prostitute, non è morto giovanissimo. Raffaello non ha nulla di biograficamente appetibile per risultare un artista blockbuster dei nostri tempi». È questo l’incipit, incisivo e intrigante, del saggio del critico d’arte nonché curatore di mostre e conferenze, dal titolo Raffaello. Il trionfo della ragione (Milano, Skira, 2020, pagine 74, euro 9)

in cui si manifesta con flagrante evidenza lo stacco tra una vita placidissima e la sublime eccellenza della sua arte. Per rimarcare la quale Nannipieri, all’inizio dell’opera, cita l’epitaffio inciso sulla tomba al Pantheon, a Roma: «Qui giace Raffaello. La natura temette di essere vinta da lui, quando era in vita; ma ora che è morto, lei teme di morire».

Le suggestioni attorno alla biografia dei grandi artisti sono «la base ineludibile» del loro mito. Non esisterebbe l’alone di divinizzazione attorno a Caravaggio se la sua arte «non venisse continuamente drogata dal continuo riferimento alla sua vita scellerata tra risse, omicidi e fughe». E van Gogh non sarebbe così celebrato se non avesse avuto quell’esistenza così «estrema», quel suo orecchio tagliato con un rasoio e recapitato a casa di una donna, quello sparo di pistola che pose fine alla sua vita. Niente alla stessa stregua a proposito di Raffaello, il quale verrebbe definito, con la terminologia attuale “il classico bravo ragazzo”.

Già Giorgio Vasari aveva alimentato questa prospettiva rilevando che nell’artista risplendono «tutte le più rare virtù dell’animo accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia et ottimi costumi».

Quando poi Nannipieri si sofferma sulla produzione artistica dell’Urbinate, allora si passa da una uneventful life a una wonderful life. E in questo passaggio si misura la portata della “rivoluzione” operata da Raffaello. Il critico si concentra sullo Sposalizio della Vergine (1504) l’opera che Nannipieri ritiene essere la più importante (Raffaello la realizzò a 21 anni). Il messaggio in essa contenuto è questo: l’uomo è più importante di Dio. Negli artisti precedenti, da Giotto a Cimabue, da Simone Martini a Piero dalla Francesca, da Mantegna a Perugino, se si deve trovare una caratteristica comune, pur nella distanza stilistica ed espressiva, è che in tutti loro centrale era il racconto di Dio, la narrazione evangelica. Centrali erano la Vergine, il Cristo, i santi, i padri della Chiesa, le flagellazioni e le risurrezioni. L’uomo veniva ritratto in quanto «testimone dell’evento divino». Nello Sposalizio a rivestire un ruolo centrale non è Dio, ma l’opera dell’uomo. Lo dice lo sguardo, anzitutto. «Raffaello — scrive Nannipieri — voleva che lo dicessero anzitutto loro: i tuoi occhi. I tuoi che, osservando l’opera, sono sospinti a guardare con insistenza non tanto i personaggi evangelici quanto il grandioso tempio in prospettiva che troneggia su tutto». Se ne accorse subito lo stesso Vasari che infatti pose l’accento non sulle figure ma, appunto, sul fatto che «in questa opera è tirato un tempio in prospettiva con tanto amore che è cosa mirabile a vedere le difficoltà che egli in tale esercizio andava cercando».

In questa tela — osserva Nannipieri — il protagonista è lo spazio umano, terreno, armonicamente armonizzato. Di conseguenza il racconto cristiano, forse per la prima volta nella storia, diventa ausiliario. Si tratta di un cambio di prospettiva concettuale di valore radicale che Raffaello — spiega il critico — non svilupperà mai compiutamente (fatta eccezione per la Scuola di Atene), ma che di fatto testimonia, sul versante pittorico, l’essenza del Rinascimento. E soprattutto apre, assieme ad altre opere, quella «crisi tra l’uomo e Dio» che l’arte moderna e contemporanea porterà agli estremi. Già il suo maestro, Pietro Vannucci, detto il Perugino, aveva composto lo Sposalizio (1500-1504). La differenza tra i due lavori è sostanziale ed è funzionale a illustrare «la sfida intellettiva» del pittore urbinate non solo rispetto al suo mentore, ma anche all’epoca che la sua gioventù, tutt’altro che acerba, stava attraversando. Nell’opera di Perugino — spiega Nannipieri — centrali sono le figure, messe quasi a formare un muro, che toglie profondità al quadro. «Il tempio è vicino e che sia secondario rispetto alla scena evangelica che si svolge davanti lo si capisce anche dalla volontà di tagliare la sua cupola» scrive il critico, che poi nota: «Maria tiene la mano sul grembo e Giuseppe viene raffigurato assai vecchio e malconcio, quasi a confermare che la paternità della futura gravidanza non è merito suo.

Il gran sacerdote è perfettamente in squadra, in linea verticale, con l’apertura principale della mozzata architettura retrostante». L’impressione che si ricava da tale impostazione è che il protagonista dell’opera sia soltanto la narrazione evangelica: il racconto di Dio, appunto. Perugino, insomma, conferma quanto aveva fatti altri artisti fino a quel momento. Raffaello invece ribalta «l’ordine delle priorità del nostro sguardo riuscendo a calamitare i nostri occhi sul senso di prospettiva, di misura e di armonia del tempio e della piazza».

In questo modo l’Urbinate trasforma il racconto di Dio in racconto degli uomini. L’uomo c’è e domina. Questo, in fondo, è il Rinascimento.

di Gabriele Nicolò

Osservatore Romano