La parola nel tempio e nella piazza

Persino Nietzsche, che veleggiava ben lontano dall’eredità ebraico-cristiana, era costretto a riconoscere in Aurora che «per noi Abramo è più [vicino] di ogni altra persona della storia greca o tedesca e tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera». Non deve sorprenderci allora il fatto che, anche in tempi così “smemorati” come sono quelli che stiamo vivendo, la Bibbia sia ancora un libro di “culto”, e non solo in senso liturgico.

La formula “grande codice”, ossia testo capitale di riferimento per l’Occidente, coniata dal visionario artista e poeta William Blake, è divenuta – per merito dell’ormai famoso saggio omonimo pubblicato dal critico canadese Northrop Frye nel 1982 – una sorta di vessillo per riproporre le Scritture Sacre non solo nella vita ecclesiale (e a questo ha contribuito efficacemente il Concilio Vaticano II), ma anche nella cultura e nella società. Questo “codice”, infatti, non è solo «l’alfabeto colorato in cui per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello», come confessava Chagall e come testimonia la mostra milanese presentata in queste pagine, ma è anche un’ideale stella polare dell’ethos e dell’etica comune (si pensi solo al Decalogo, pur violato ma – come suggeriva Kieslowski coi suoi dieci film a esso dedicati – sempre infisso nel cielo della morale). Certo, prima di tutto i credenti devono costantemente lasciarsi guidare da questa «lampada che illumina i passi» nel sentiero dell’esistenza, come invita a fare il salmista (119,105). Per fortuna, oggi è molto meno fondata la nota ironica che il poeta francese Claudel, negli anni Cinquanta del secolo scorso, riservava ai cattolici il cui «rispetto nei confronti della Bibbia era talmente grande che essi ne stavano il più lontano possibile». Tuttavia l’incontro con la Bibbia è indispensabile anche per i non credenti, se desiderano essere consapevoli della loro identità culturale, del loro stesso volto autentico, per usare un’espressione del grande poeta Eliot. Tanto per fare un esempio, senza la conoscenza delle Scritture due terzi delle opere esposte nella pinacoteca di qualsiasi città risultano incomprensibili.

Non potevano certo essere accusati di apologetica, ma Goethe senza esitazione riconosceva che «la lingua materna dell’Europa è il cristianesimo» e Kant era convinto che «il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà». Siamo indubbiamente convinti che a costruire la nostra identità europea hanno contribuito anche la cultura classica greca e latina, l’umanesimo rinascimentale e l’illuminismo, l’idealismo e il socialismo. Ma questi contributi non hanno cancellato la matrice biblica, anzi, spesso hanno attinto a essa o alla luce di essa sono stati rielaborati. Deve allora risuonare forte e chiara la parola della Bibbia non solo nella sacralità del tempio ma anche nel fervore della piazza, non solo nell’esistenza del fedele ma nella stessa società, non solo nella teologia ma anche nella cultura.

 

Gianfranco Ravasi – avvenire.it