La nostalgia di una Chiesa capace di guardare al mondo e alla vita non con le lenti del giudizio ma attraverso uno sguardo che riesce a vedere bellezza anche dove non ci aspetteremmo di trovarla

Un padre anziano, una casa vuota alla periferia di Torino, tre figli lontani, una domenica mattina che non va come doveva andare e si apre all’imprevisto… È il semplice contesto in cui è ambientato “Una domenica” di Fabio Geda, uno dei libri che avevo lì e che grazie alla quarantena sono riuscito ad aprire.

Una vicenda semplice, quotidiana, ma sorprendentemente carica di umanità e di bellezza (e già solo trovare chi rintracci umanità e bellezza nel quotidiano è cosa straordinaria!). Geda è capace di uno sguardo realmente contemplativo, che vede nelle cose non semplici oggetti ma significati, ricordi, segni; e nelle persone tracce di vita e di fragilità, che anche quando diventano incomprensione, rimpianto, tradimento, non riescono a perdere la loro bellezza. Seguendo il racconto ti ritrovi a emozionarti per un anziano che fa colazione al bar, per un ragazzo che va sullo skate, per una donna che fuma in giardino. Scene scontate, che non avrebbero nulla di eccezionale se il tratto di Geda non le inquadrasse da quell’angolazione impossibile capace di far risaltare lo straordinario dove normalmente c’è solo routine.

Non è un racconto che parla di Dio e religione, se non per pochi cenni. Ma è stato capace di provocare la mia fede. In due momenti in particolare. Il primo è quando la protagonista racconta così il funerale della madre:

“C’era un cane che abbaiava il giorno del funerale di mamma e ricordo che tutti si lamentavano. […] Attendevo che una parola delle sacre scritture – era un funerale religioso sebbene nessuno di noi fosse in senso stretto praticante: in famiglia, per scherzare, ci definivamo simpatizzanti – anche una sola di quelle parole mi donasse il conforto che secondo il giovane sacerdote dagli occhi dolci che stava officiando la funzione avrei dovuto ricevere. Eppure lui ci provava. Giuro. Si vedeva che ce la metteva tutta. Ma niente. Io ascoltavo il cane. Alle carezze di quell’umile servo di Dio preferivo la cagnara selvaggia del randagio che mi abbaiava addosso senza ipocrisia che tutto era finito”.

Non ho potuto fare a meno, arrivato a questo punto, di alzare gli occhi dal libro e fermarmi a pensare. Non è, quello che viene descritto, esattamente quanto accade il più delle volte ai nostri discorsi su Dio, sul Vangelo, sulla religione e sulla fede, quando casualmente arrivano alle orecchie non dei soliti della nostra cerchia, ma degli altri, di chi vive nel mondo e al più si definisce “simpatizzante”? Mi colpisce come viene descritto il “giovane sacerdote dagli occhi dolci”. Non vi è traccia di pregiudizio o rifiuto. Vi è anzi il riconoscimento del suo sforzo autentico e sincero. Ma il problema non è lui, è che quello che dice non riesce a far breccia, non è (più) in grado di arrivare all’uomo. Non è mancanza di energia e convinzione da parte del cristiano, non è pregiudiziale assenza di disponibilità a mettersi in discussione da parte di chi ascolta. È che il messaggio, così come viene proclamato, non parla, non raggiunge le corde vibranti nell’anima delle donne e degli uomini del nostro tempo. Quelle corde che invece Geda fa vibrare dall’inizio alla fine del suo racconto.

Personalmente credo che questo sia il primo e vero problema della Chiesa oggi.

Il secondo passaggio che mi ha fatto pensare è proprio alla fine, quando la protagonista racconta cosa ne è stato della casa dei genitori, abitata adesso dalle nipoti, figlie di sua sorella, e dice così:

“La casa di Lungo Po Antonelli è ancora nostra. La usano Greta e Rachele che frequentano l’università a Torino. È bello che la usino loro due, che sia sempre piena di loro amiche e di loro amici, che si senta odore di marijuana e che ci facciano l’amore. Ed è bello che noi tre si abbia ancora un luogo in cui tornare di tanto in tanto, così, per dialogare con il tempo che passa e cercare di farci pace.”

Anche qui il mio sguardo si è sollevato, e non solo perché con questa frase si conclude il libro. Ma perché ho provato a pensare con che occhi giudicanti faremmo fatica a non leggere una frase del genere all’interno dei nostri cancelli ecclesiali. Così distanti da quello sguardo capace di dire “è bello… che si senta odore di marijuana e che ci facciano l’amore”. Certo, ci sono qui in gioco questioni da non liquidare superficialmente, ma alla fine del libro personalmente ho provato una profonda nostalgia. La nostalgia di una Chiesa capace di guardare al mondo e alla vita non con le lenti del giudizio ma attraverso uno sguardo che riesce a vedere bellezza anche dove non ci aspetteremmo di trovarla.

Mi chiedo se Gesù, guardando la prostituta, il pubblicano, il ladrone, non abbia avuto uno sguardo così. (vinonuovo.it)