La natura comunionale della Chiesa

settimananews

La Chiesa in natura non può esistere. Quest’affermazione, apparentemente paradossale, ci ricorda che le comunità cristiane hanno alcune caratteristiche originali che non si riscontrano in nessun’altra organizzazione e che rendono la loro esistenza in questo mondo una continua eccezione alle normali dinamiche relazionali.

Un contesto disomogeneo

Una comunità ecclesiale che viva in modo maturo la sua identità, infatti, non è costituita da persone che si sono scelte per affinità di tipo psicologico o comunanza di interessi, ma da individui realmente differenti che il Signore ha voluto chiamare alla fede e convocare nell’unità della sua Chiesa. Questo significa che in ogni comunità si trovano a vivere e a operare fianco a fianco persone che non avrebbero alcuna motivazione per stare insieme, poiché per temperamento, cultura, visione della vita, idee politiche o altre ragioni tenderebbero ad essere nemiche le une delle altre. Eppure esse, unicamente in virtù dell’azione dello Spirito Santo, possono effettivamente vivere in comunione e collaborare in modo sinodale all’unica missione ecclesiale.

Questo modo utopistico di impostare un’organizzazione, che di per sé genererebbe conflitti insanabili e distruttivi, diventa invece realizzabile in ogni comunità cristiana, che diventa in questo modo segno eloquente del regno di Dio e della sua diversità da questo mondo.

Non sempre, però, le comunità ecclesiali sono disponibili a vivere in questa logica. Non di rado esse si configurano più come dei club, nei quali si entra con grande difficoltà e solo grazie alla conoscenza di persone importanti che ne fanno già parte. Lo sanno bene quei cristiani che arrivano in Italia da altri paesi e che, pur essendo cattolici, fanno fatica ad inserirsi nelle parrocchie del loro territorio, di cui in realtà avrebbero il diritto di far parte.

Quest’accoglienza faticosa, tuttavia, non è l’unico segnale preoccupante. Più ancora, vi è uno stile profondamente contrario all’identità ecclesiale che non di rado si diffonde all’interno delle Chiese locali, dei presbiteri, delle parrocchie, delle comunità religiose e di vita consacrata, delle associazioni e dei movimenti.

Si tratta della convinzione secondo la quale non è possibile camminare insieme nella fede e sostenersi se si vive in un contesto ecclesiale disomogeneo, nel quale cioè coesistono in modo caotico visioni spirituali, pastorali e teologiche molto diverse tra loro. Secondo tale prospettiva, occorrerebbe anzitutto raccogliersi in contesti più omogenei, in cui sia possibile una maggiore interazione, confronto e sostegno reciproco. Quindi, ci si può rimettere in gioco nel più ampio contesto ecclesiale, al fine però di far passare la propria visione delle cose in modo più o meno manifesto.

Se poi questo non fosse possibile, ci si ritira passivamente, privando la più ampia comunità del proprio contributo. Insomma, o ci si adegua alle istanze di queste persone o si deve fare a meno di loro.

La natura comunionale della Chiesa

L’atteggiamento maturo, quello che corrisponde alla natura comunionale della Chiesa, è invece quello di chi sta dentro alla comunità cristiana così com’è, sempre e comunque, senza la pretesa di costruirsi un contesto omogeneo e affine alle proprie sensibilità ed esigenze. Quanto sarebbe del tutto giustificato in qualsiasi altra organizzazione umana, non lo è nella Chiesa in virtù del suo essere una comunità di persone convocate dal Signore e non un club.

kasper4

Ciò non toglie, ovviamente, che le difficoltà che si sperimentano nella vita ecclesiale debbano essere prese molto sul serio, e che possano legittimare la decisione di tirarsi fuori da una situazione molto dolorosa. Altro però è fare un passo indietro quando si è veramente esausti o laddove si percepisce che la propria presenza e attività non è vantaggiosa per la propria comunità cristiana, altro è andarsene semplicemente perché non è disponibile quell’ambiente omogeneo di cui si ritiene di aver bisogno per vivere.

Questo secondo atteggiamento potrà essere occasionalmente tollerato come forma di rispetto per le difficoltà psicologiche e spirituali di chi in contesti disomogenei si sente oppresso o minacciato, ma non potrà divenire la norma. In caso contrario, si finirebbe per frammentare la comunità ecclesiale in una serie di piccoli club che crescono solo nella loro coesione interna, mentre nel più ampio contesto comunitario lottano per imporre la loro visione delle cose.

La via per evitare queste derive si gioca nel coltivare uno stile dialogico tipicamente ecclesiale, cioè corrispondente alla natura comunionale della Chiesa, nella quale possono e devono esistere rispettosamente posizioni diverse. A questo riguardo così si esprime il recente documento della Commissione teologica internazionale La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa: «Il dialogo sinodale implica il coraggio tanto nel parlare quanto nell’ascoltare. Non si tratta d’ingaggiarsi in un dibattito in cui un interlocutore cerca di sopravanzare gli altri o controbatte le loro posizioni con argomenti contundenti, ma di esprimere con rispetto quanto si avverte in coscienza suggerito dallo Spirito Santo come utile in vista del discernimento comunitario, aperti al tempo stesso a cogliere quanto nelle posizioni degli altri è suggerito dal medesimo Spirito «per il bene comune» (cf. 1Cor 12,7).

Il criterio secondo cui «l’unità prevale sul conflitto» vale in forma specifica per l’esercizio del dialogo, per la gestione delle diversità di opinioni e di esperienze, per imparare «uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita, rendendo possibile lo sviluppo di “una comunione nelle differenze”» (n. 111).