La narco-guerra dei romanzieri

«A volte non siamo noi scrittori a scegliere le storie. Sono le storie a imporsi sulla nostra volontà…», afferma Yuri Herrera. C’è una storia che ormai satura la realtà e l’immaginazione dei messicani. Le cronache quotidiane dei giornali – la cosiddetta “nota roja” – non riescono a contenerla. Trabocca dalle rotative e irrompe nelle pagine dei libri. È la storia degli ultimi cinque anni: i latinos, col loro spiccato gusto per i neologismi, la chiamano l’era della “narco-guerra”.

Da quando il governo ha schierato l’esercito contro i trafficanti, il conflitto è uscito dalle periferie delle città di frontiera, da sempre terra di bandoleros (banditi). Acapulco, Veracruz, Mazatlan, Morelia, la guerra è ovunque. Nessuno si sente al sicuro: tra i 60 mila morti ammazzati dal 2006 ci sono bambini, donne, passanti che niente avevano a che fare col crimine. L’intero Messico è un campo di battaglia. Anche culturale. Da una parte della barricata ci sono i “cantori” delle imprese dei narcos: musicisti popolari, autori di pamphlet su commissione, ritrattisti. Sul fronte opposto ci sono gli intellettuali che si «sforzano di comprendere il terrore», come dice lo scrittore Martín Solares. O «di guardarlo e farlo guardare da una prospettiva altra», aggiunge Yuri Herrera.

I risultati di questi sforzi giacciono in bella mostra sugli scaffali delle principali librerie della capitale. I risultati di questi sforzi giacciono in bella mostra sugli scaffali delle principali librerie della capitale. I “romanzi criminali” o meglio “i romanzi sui criminali” sono i titoli più venduti anche nei giganteschi negozi di Condesa e Roma, ritrovo di ricchi annoiati. Tanto che molti critici hanno dichiarato la nascita di un nuovo genere e, mutuandolo dal linguaggio corrente, l’hanno chiamato “narco-letteratura”.

Herrera, Solares, Elmer Mendoza, insieme a Daniel Sada, Hilario Peña, Heriberto Yépez e Rafael Saavedra, sarebbero i capofila di questa generazione di “narco-scrittori”. Loro, però, disdegnano la definizione. «I nostri romanzi appartengono a specie zoologiche diverse», afferma Solares, autore di Minuti neri, edito in Italia dal Saggiatore. E sottolinea: «Ai critici piace inventare etichette e appiccicarle a opere differenti tra loro. Prima, cercavano di catalogare Minuti neri tra i libri sulla corruzione, poi tra i polizieschi. Ora lo considerano un “narco-romanzo”. Spero che prima o poi riescano ad apprezzarlo per quello che è: un racconto della vita quotidiana nel Golfo del Messico». Il crimine è da decenni, come il chile (peperoncino) in cucina, uno degli ingredienti più ricorrenti nella letteratura messicana. È stato Paco Ignacio Taibo II, 15 anni, uno dei primi a mettere il narcotraffico al centro dell’intreccio, con Sogni di Frontiera (Marco Tropea). Poi, nel 2002, il campione di incassi spagnolo, Arturo Pérez Reverte, ha scritto La regina del Sud, ritratto di una giovane narco e della sua scalata ai vertici criminali. L’opera, pubblicata in Italia dal Saggiatore, ha venduto 800mila copie ed è stata tradotta in 34 lingue. Un successo internazionale che ha contribuito a far conoscere i romanzi a sfondo narco oltre i confini messicani. Pian piano l’Europa ha imparato ad apprezzare il genere. Che ora va anche in Italia. Tra gli scrittori i più noti, nel Belpaese, c’è Elmer Mendoza, autore di Proiettili d’argento e del nuovissimo Il cartello del Pacifico, (entrambi La Nuova Frontiera). Le avventure del Zurdo (il mancino), poliziotto scontroso e onesto, riecheggiano, per alcuni aspetti, la saga di Montalbano.

Invece che con gli ingarbugliati delitti di Vigata, el Zurdo deve fare i conti con la violenza di Culiacán. «È una città prospera, cara, frenetica, piena di belle donne e pessima stampa – scherza Mendoza –. Una città soffocata dal peso di essere la patria dei grandi boss del narcotraffico». Eppure, Culiacán, come il Messico, non si arrende al suo destino. «Il Messico è immenso e ha molta voglia di vivere e di vivere bene. Ci sono ancora molti spazi dei quali i criminali non sono riusciti a impossessarsi». Reduce dal successo spagnolo, dove ha ricevuto il prestigioso premio Otras voces, otros ámbitos, è appena arrivato in Italia (sempre per La Nuova Frontiera) La ballata del re di denari, di Yuri Herrera. «Il mio libro parla del potere. E della sua relazione con l’arte», afferma. Per farlo, l’autore ha scelto la metafora della fiaba: un regno immaginario di un Paese immaginario, a cui uno sfortunato cantante di corridos (canti popolari) accede grazie alla sua voce. Per scoprirne, però, ben presto, l’orrore nascosto.

Una “narco-Macondo”, dicono alcuni critici, ancora affezionati alla categoria del realismo magico, dietro la cui apparenza è possibile riconoscere tracce della brutale Ciudad Juárez e dell’intero Messico. «L’arte non riflette la realtà: se ne distanzia per poterne parlare in modo più profondo, al di là della singola congiuntura – sottolinea Herrera –. Per questo noi artisti abbiamo una responsabilità civile. Nel breve periodo, i libri possono fare poco. Ma nel medio, contribuiscono a creare “cittadinanza”».

A dispetto della mala educación della delinquenza. Forse è per questo che quando gli si domanda di descrivere il Messico con tre aggettivi, risponde: «Ferito, dalla violenza; dubbioso, sulla strada da intraprendere; resistente. Il Messico non è uno Stato fallito. La società si sta ribellando al potere dei narcos». Un potere anche culturale. Il mito del denaro facile è un’arma potente quanto i kalashnikov. «Nelle epoche oscure – conclude Martín Solares – niente è così prezioso come la testimonianza di altri che hanno vissuto esperienze analoghe e sono riusciti a fuggire dal labirinto». La letteratura ai tempi della “narco-guerra” è un buon filo d’Arianna.

 

Lucia Capuzzi / avvenire.it