«La mia Italia stravolta dalla televisione»

Sembra tutto sospeso: è il mondo di Reality. Lo stordimento di Luciano, il protagonista dell’ultimo film di Matteo Garrone, Gran Premio della Giuria a Cannes – in sala da venerdì – sembra quello che assale Riccardo nel verdiano Ballo in maschera: «È scherzo od è follia siffatta profezia», si domanda. Il regista romano a questo proprio non vuole rispondere: la lunga risata finale del suo protagonista, che invade la casa del Grande Fratello, non si sa quale origine abbia e dove porti. «Non lo svelerei mai, ognuno ci deve vedere quello che vuole, in quella risata. Era l’unico finale possibile nella storia di Luciano». Pescivendolo napoletano, sostituisce la mercanzia dei suoi banchi col richiamo delle sirene televisive, pericolose quanto mai: partecipa, spinto dai parenti, a un provino del Grande Fratello, ci crede, la finzione prende il posto della realtà. «Un film ispirato a un fatto realmente accaduto, girato per divertire – precisa Garrone – e per creare delle emozioni».

La parabola malsana di Luciano, però, rappresenta in qualche modo una Italia succube della televisione.
L’idea è stata quella di raccontare un Paese e i suoi cambiamenti attraverso un personaggio che diventa un eroe tragicomico, ingenuo e buffo. Mi affascinava l’idea di poter raccontare i contrasti e i conflitti che viviamo, senza voler giudicare o denunciare.

Ma il modello dell’Italia cui aspira Luciano è quello rappresentato dalla casa del Grande Fratello. E questo è davvero inquietante.
Tengo a far notare che noi tutti viviamo in una società dei consumi, attirati dai paradisi artificiali. Luciano ha il suo modello: aspira a entrare nel mondo dello spettacolo e cambiare il proprio destino e quello dei familiari. Io non lo sento un personaggio lontano da me, sinceramente io pure sono fragile, sono vittima di mille seduzioni. Per questo non me la sento di fare discorsi moralistici, di dire: “guardate come siamo ridotti”.

L’ambientazione del film è molto ricercata.
È fondamentale. Nel caso di Reality volevo raccontare una realtà un po’ magica, quindi dovevamo trovare dei luoghi che ricordassero la dimensione favolistica, però al tempo stesso che fossero credibili e verosimili. In Gomorra, invece, ogni storia era legata a un luogo che direttamente spiegava qualcosa dei personaggi: le Vele di Scampia, la dimensione claustrofobica e carceraria in cui va a vivere Totò il ragazzino, mentre la storia di Marco e Ciro, i due amici anarchici, l’abbiamo ambientata in un luogo fatto di campi e mare, per evocare un senso di libertà.

Quella libertà che Luciano perde, ossessionato da un reality televisivo.
Per molti poter entrare dentro la televisione non è soltanto un fatto narcisistico, ma una certificazione della propria esistenza: ciò che accade nella televisione spesso è più vero di quello che si vive nella vita di tutti i giorni. È il motivo per cui Luciano sprofonda in questa ossessione. Con il mio film non ho voluto fare una critica a certi programmi televisivi, ma una riflessione più ampia e più legata alla società in cui viviamo, con i suoi vantaggi e svantaggi.

Un pensierino all’Oscar?
Tutto è legato al caso, devi avere la fortuna che la tua idea di cinema si sposi con la sensibilità di chi sceglie. Di certi atteggiamenti che sono nati a Venezia, dove ero giurato, dopo la premiazione  per non aver dato alcun premio maggiore ai film italiani, me ne dispiaccio: si vogliono vedere soltanto i lati negativi delle cose. Ribadisco: non mi trovo molto a mio agio a giudicare gli altri, lo lascio fare al mio cinema. E poi, un premio è soltanto un’ipotesi, il tempo decide se un film vale oppure no.

Luca Pellegrini