«La messa in italiano» è stata un immenso cambiamento: finalmente si entrava come comunità dentro la parola di Dio

Cinquant’anni fa cambiava il mondo, e cambiava anche la Chiesa. Il 7 marzo 1965 papa Paolo VI, nella parrocchia di Ognissanti a Roma, sull’Appia Nuova, celebrava la prima messa in lingua italiana. Finiva così, dopo mezzo millennio, l’epoca della messa tridentina. Era l’ultimo atto di un percorso avviato da tempo, ancor prima del Concilio Vaticano II, che si era aperto l’11 ottobre 1962 e che si sarebbe chiuso il 7 dicembre di quel 1965.

Era, come dicevamo, un tempo di grandi cambiamenti. Nel mondo si respirava ancora la grande speranza portata da personaggi come Kennedy e Giovanni XXIII, dal progresso della scienza e da un benessere che finalmente cominciava ad arrivare anche al popolo.

Com’eravamo

L’Italia pare star benone, nel 1965. Un sondaggio della Doxa assicura che il 52 per cento degli italiani è «abbastanza soddisfatto» del proprio tenore di vita e il Financial Times assegna alla lira «l’Oscar della moneta». Un operaio guadagna 86.000 lire mese ma un insegnante di scuola media 110.000; un quotidiano costa 50 lire come il biglietto del tram; un chilo di pane 170 lire e uno di pasta 250. La Fiat 500 F prende il posto della serie D e ha una grossa novità: le portiere sono incernierate nella parte anteriore, e quindi non si aprono più controvento. Andiamo forte anche nella cultura e nello sport: Vittorio De Sica vince l’Oscar con «Ieri, oggi, domani»; escono, e vanno subito a ruba, gli Oscar Mondadori, 350 lire l’uno; l’Inter vince per il secondo anno consecutivo sia il titolo europeo che quello mondiale e Felice Gimondi manda in bestia i francesi vincendo il Tour.

In questo mondo che cambia la Chiesa si accorge che il suo tradizionale linguaggio rischia di non essere più adatto ai tempi. Nella messa tridentina, detta anche di san Pio V, tutta la celebrazione è in latino, anche la lettura del Vangelo; il sacerdote sta sempre girato verso il tabernacolo; per lunghi tratti è lui a recitare, mentalmente o a bassissima voce, il messale, e quindi tra i fedeli regna il silenzio; anche il Padre Nostro, l’unica preghiera che Gesù ha insegnato e raccomandato di recitare, è pronunciato solo dal prete; la comunione si riceve in ginocchio. È una liturgia che certamente trasmette il senso del sacro e del mistero: ma i vecchi parroci raccontano che la gente di fatto non seguiva: «Le donne finivano per recitare il rosario e in chiesa si sentivano solo loro».

L’altare condiviso

In quello stesso 1965 l’allora ventenne Luigi Ciotti, non ancora sacerdote, fondava il Gruppo Abele. «La messa in italiano», ricorda, «è stata un immenso cambiamento: finalmente si entrava come comunità dentro la parola di Dio. Prima c’erano due chiese, quella dei preti e quella dei fedeli: con la riforma liturgica si è capito che l’altare è una tavola con tanti commensali». È convinto che con il nuovo rito sia cambiata non solo la messa, ma anche la vita di tutti i giorni: «Tanti giovani hanno potuto conoscere il Vangelo e hanno provato il desiderio di viverlo nella carità. Insomma si è passati dalla religione alla fede».

Se don Ciotti passa per un «prete progressista», lo stesso non vien detto di padre Livio Fanzaga, fondatore e direttore di Radio Maria. Eppure sulla messa in italiano la pensano allo stesso modo: «La riforma», dice padre Livio, «è stata una benedizione perché chi partecipa alla messa viene istruito nella fede e si rende conto dei misteri che vengono celebrati.

La messa in italiano è un catechismo insuperabile». Eppure oggi gli italiani, in materia di cose religiose, sono molto più ignoranti di allora… «Se l’ignoranza religiosa cresce dipende dal fatto che cala la presenza alla messa. Noi trasmettiamo ogni mattina una messa ed è di gran lunga il programma più seguito: oltre mezzo milione di persone». E pare sottinteso che voglia dire: quella con il vecchio rito non la ascolterebbe nessuno.

«È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale», disse Paolo VI nell’omelia di quella prima messa in italiano. C’erano grandi speranze forse deluse: il futuro non è stato rigoglioso. Ma non è detto che sia colpa di quella svolta.

La Stampa