La liturgia a 60 anni dal primo annuncio del Vaticano II: pietre miliari, sfide e prospettive

IHU-convegno

cittadellaeditrice.com

Magnum principiuma Concilio Oecumenico Vaticano II confirmatum, ex quo precatio liturgica, ad populi captum accommodata, intellegi queat”

(Magnum Principium, 1)

Per comprendere la condizione della liturgia a 60 anni dal primo annuncio del Concilio Vaticano II dobbiamo considerare, anzitutto, se davvero abbiamo compreso non solo “che cosa” sia avvenuto, ma “se” sia avvenuto qualcosa al Vaticano II. Come hanno detto, con il vantaggio di osservare gli eventi romani da 10.000 Km di distanza, sia J. O’Malley, sia G. Routhier, al Vaticano II è avvenuto un “evento linguistico” e un “cambio di paradigma” che nessuna ossessione per la continuità potrà mai negare o alterare. Il Vaticano II ci ha condotti a “rileggere la tradizione” con un altro approccio, con uno sguardo nuovo e diverso. Non anzitutto “dottrinale” o “disciplinare”, ma come narrazione e azione, come Parola e Sacramento. Il Concilio Vaticano II è un atto di fedeltà alla tradizione, che la libera dagli irrigidimenti dottrinali e disciplinari, e che esige di riconsiderare le “fonti” della tradizione. Tra le fonti non vi è né la dottrina, né la disciplina, ma, piuttosto la esperienza di parola rivelata ed ecclesialmente vissuta (DV e LG), la esperienza della azione del culto rituale e della relazione al mondo come luogo dello Spirito (SC e GS), che poi, solo in seconda istanza, elaborano giuste dottrine e necessarie discipline.

Il Concilio Vaticano II si è autointerpretato – tanto nelle parole di Giovanni XXIII quanto in quelle di Paolo VI – come “concilio pastorale”. Il fraintendimento di questa “indole pastorale” del Concilio ha spesso profondamente compromesso la comprensione corretta della riscoperta della liturgia come fons e del progetto di “riforma liturgica” che da questa scoperta è derivato.

Vorrei pertanto presentare, in ordine, i seguenti punti della mia argomentazione: anzitutto presenterei il senso della “indole pastorale” del CV2 (§.1) al cui interno prende senso, in primis, la riscoperta della liturgia come “azione elementare e originaria” della esperienza ecclesiale, che conduce alla Riforma (§.2) in vista della acquisizione di una “actuosa participatio” che è la forma di partecipazione coerente con la nuova natura che si era scoperta della liturgia, non come “cerimonia esteriore”, ma come “linguaggio elementare della rivelazione e della fede”. Ma il cammino della Riforma Liturgica aveva, in sé, il progetto di una “riforma ecclesiale”. Il vero oggetto della riforma non è, infatti, la liturgia, ma la Chiesa. Per questo la resistenza alla riforma della Chiesa è emersa, anzitutto, come resistenza alla riforma della liturgia: esplicitamente tutto questo inizia dal 1988, che è la apertura della “terza fase” del ML (§.3). Negli ultimi tempi abbiamo assistito al concentrarsi della resistenza alla Riforma della Chiesa su due versanti principali, sui quali vorrei fare brevemente due esempi: da un lato la questione del “parallelismo” che dal 2007 vediamo ricomparire tra VO e NO (§.4); dall’altro la resistenza contro la Riforma dei testi, che inizia nel 2001, con la approvazione di LA e di fatto il blocco della relazione vitale tra latino e lingue nazionali, con l’attribuzione al latino di un valore normativo sulla espressione in lingua diversa (§.5). Negli ultimi 6 anni, anche in campo liturgico, il Concilio Vaticano II è tornato a parlare e a ispirare. Le prospettive di maggiore momento vanno nella direzione di un rapporto tra “liturgia e cultura” non bloccato da schemi nostalgici, da parallelismi ipocriti o dalla sopravvivenza di schemi di interpretazione di tipo spudoratamente antimodernistico.

1. Indole pastorale del Vaticano II: “sostanza di antica dottrina e formulazione del rivestimento”

Alla radice del Concilio Vaticano II sta una intuizione teorica e una profezia storica di prima qualità. Giovanni XXIII la formula durante il suo discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre del 1962,secondo la nota definizione che troviamo nel discorso Gaudet mater ecclesia pronunciato da Giovanni XXIII il 11 ottobre 1962 in apertura del Concilio Vaticano II, imposta una relazione tra “sostanza della antica dottrina del depositum fidei” e “formulazione del suo rivestimento”. Ciò non va compreso, come talvolta accade, nei termini di una “relativizzazione” della forma rispetto al contenuto, ma piuttosto come ha mostrato assai bene Giuseppe Ruggieri nel suo studio sulla “teologia di Giovanni XXIII”, al contrario, come recupero di una “mediazione storica” per un accesso “nutriente” alla tradizione: la “sostanza” dell’antica dottrina è ciò che nutre e fa fiorire la tradizione della chiesa, in forme sempre necessariamente nuove. Già per questo testo di apertura del VAT II dovremmo applicare il criterio filologico: l’originale è italiano, non latino, e tanto meno un italiano – o un portoghese – che è traduttor dei traduttor d’Omero!

Ma anche Paolo VI, quando apre la II sessione del Concilio, meno di un anno dopo, in seguito alla morte di Giovanni XXIII e alla sua elezione, precisa che il Concilio si trova su una soglia decisiva:

«E’ venuta l’ora, a noi sembra, in cui la verità circa la Chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa, non forse con quelle solenni enunciazioni che si chiamano definizioni dogmatiche, ma con quelle dichiarazioni con le quali la Chiesa con più esplicito ed autorevole magistero dichiara ciò che essa pensa di sé» (Paolo VI, 29/09/1963, Apertura II Sessione Conc. Vaticano II).

Se mettiamo insieme queste due affermazioni vediamo bene comparire la “differenza” – o “discontinuità” – che il Concilio Vaticano II rappresenta nella tradizione della Chiesa. Per assicurare una continuità, deve introdurre una discontinuità. Che possiamo tradurre in due principi:

– secondo la espressione di Giovanni XXIII non si tratta di considerare l’essenziale nel mutare dei rivestimenti, come potrebbe far pensare una lettura distratta. Si tratta, piuttosto del contrario: occorre assumere un “accesso complesso” al valore nutriente della tradizione. Sono le “diverse formulazioni del rivestimento” che di volta in volta fanno accedere le diverse epoche a ciò che della tradizione è nutriente e sostanzioso!

– secondo la espressione di Paolo VI, perché la Chiesa possa “meglio dichiarare ciò che pensa di sé” occorre che “esplori, ordini ed esprima” la verità con dichiarazioni diverse dalla dottrina e dalla disciplina che tradizionalmente aveva preso le forme, eminenti, di dichiarazioni dogmatiche e di canoni di condanna.

Un nuovo esercizio del magistero, più esplicito e autorevole – “clariore et graviore magisterio” – è in gioco per cogliere quelle dimensioni di fondo della esperienza cristiana che diventeranno, nei mesi e anni successivi a questi discorsi, SC, DV, LG, GS. Con mirabile inclusione, a questi discorsi sulla “indole pastorale” seguiranno documenti che, in forma più o meno esplicita e coerente, daranno corpo a questo progetto, recuperando la “azione rituale”, la “parola rivelata”, la “relazione ecclesiale” e la “correlazione al mondo” come “esperienze del mistero”.

2. La liturgia come “azione originaria” (fons) e “azione comune” (per ritus et preces)

In questo ambito, e con il vantaggio di un terreno già dissodato dal lavoro di due generazioni – ma anche con il vantaggio di un “pregiudizio cerimonialistico” che non identificava nella liturgia un “terreno delicato” nel dibattito teologico – SC propone una rilettura della azione rituale come “continuazione della storia della salvezza” di cui mette in rilievo, in una maniera davvero nuova, anche rispetto a Mediator Dei di PIO XII (1947) due aspetti della liturgia che diventeranno decisivi per gli sviluppi successivi:

a) L’azione rituale è non solo “espressione esterna”, ma “esperienza originaria” di tutta la azione della Chiesa.

b) L’azione rituale è azione comune a tutto il popolo di Dio, che è “comunità sacerdotale”.

Questi due principi riprendono una antica tradizione, che il primo millennio aveva ben conosciuto, ma che il secondo millennio latino aveva gradualmente appannato, fino a perderlo.

Tutta questa novità della nozione di “azione rituale” diventa decisiva nel modo di impostare la “partecipazione del popolo”: tutti partecipano alla azione rituale. La “actuosa participatio” significa proprio questo. La liturgia non è dei chierici, ma della assemblea radunata, cui i chierici prestano servizio, come “umili servi nella vigna del Signore”.

L’emergere di questa nozione di “actuosa participatio”, per la quale tutti, mediante i “ritus et preces” possono “intelligere” il mistero pasquale, determina il sorgere di una esigenza di “riforma”. La riforma sarà lo strumento per poter trasformare il VO, le forme rituali tridentine, in una struttura rituale capace non solo di ospitare, ma di suscitare e di accompagnare la partecipazione dell’intero popolo di Dio alla azione liturgica. Il lavoro che inizia subito dopo la approvazione di SC, già dal 1964, porterà, nel giro di 25 anni, ad un totale rinnovamento degli “ordines” liturgici, con un lavoro accuratissimo di traduzione, adattamento, riformulazione.

3. Una periodizzazione del ML per capire il nostro tempo: generatio aequivoca

Per capire che cosa è avvenuto dopo il 1988, dobbiamo ora fare un piccolo passo indietro. Perché uno dei vizi con cui spesso leggiamo la vicenda della liturgia “dopo il Concilio” è di non tener conto di ciò che vi è stato prima. In modo sintetico voglio ricordare che:

a) Il ML non è ciò che precede il Concilio Vaticano II, ma qualcosa di molto più ampio e complesso, e che arriva fino a noi. Inizia con premesse nel XIX secolo, poi ufficialmente agli inizi del XX secolo e arriva in una sua prima fase fino a MD, nel 1948;

b) Dopo il 1948, quando si conclude la sua “fase profetica”, inizia una lunga fase, che arriverà fino al 1988, che possiamo definire “fase della riforma”. In effetti le riforme iniziano poco dopo il 1947, con la riforma della Veglia Pasquale e poi della Settimana Santa e tanti progetti già prima del Concilio. E arriva, come abbiamo detto fino al 1988.

c) Nel 1988 accadono tre fatti epocali: 25 anni da SC, lo scisma lefebvriano e la approvazione del primo rito “inculturato” (Messale Romano per la Chiesa zairese). La riforma è compiuta e occorre “cambiare passo”, recuperando la priorità vera, che non è la riforma, ma la “actuosa participatio”. Il Concilio vuole la Riforma come strumento, ma la “partecipazione attiva” come fine.

In questa schematica ricostruzione iniziano due percorsi. Uno di graduale “assimilazione” dei riti riformati come “linguaggio rituale” della Chiesa. Dall’altro la resistenza della “societas perfecta” contro le nuove forme rituali. Gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II sono lo spazio di un grande fenomeno di “resistenza”, che si esprime poi con ancora più forza durante il pontificato di Benedetto XVI. Da questa “resistenza ad oltranza” nascono anche autentici “mostri”, fondati su argomentazioni prive di fondamento, su forzature e su forme autoreferenziali di giustificazione davvero impressionanti, se guardate con gli occhi di soli 10 o 20 anni dopo. Esaminiamo i due principali “monstra” che sono stati generati dal “sonno della ragione liturgica” in questo periodo.

4. “Monstrum primum”: una teoria del “parallelismo universale” tra Vetus Ordo e Novus Ordo

Di punto in bianco, con argomentazioni senza alcun fondamento, nel luglio del 2007, papa Benedetto XVI ripropone la “vigenza” dei riti precedenti dal riforma liturgica, in parallelo con quelli riformati. Non solo per l’eucaristia, ma per tutti e 7 i sacramenti ed anche per anno liturgico, liturgia delle ore e sacramentali vari, tutto il repertorio di “Ordines” vigenti prima del 1969 viene riportato in vigore, sottraendo al potere episcopale ogni possibile controllo della liturgia diocesana e riservandone la competenza alla Commissione romana Ecclesia Dei. Si è trattato di una operazione spregiudicata sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista teologico, che ha introdotto gravi forme di distorsione nella pratica rituale ecclesiale, contagiando potenzialmente ogni parrocchia di un possibile dualismo che dal piano celebrativo passava, inevitabilmente, al piano ecclesiale, spirituale, etico, dottrinale. Un vero “vulnus” alla tradizione liturgica, una forma “irresponsabile” di perdita di controllo e di attribuzione di “autorità” a tutte le forme di passatismo, tradizionalismo nella Chiesa. Dando rilievo e sostegno a qualche “caso umano” e a non pochi “casi clinici”. Una chiesa che, dopo aver fatto una grande e accurata riforma, rimette in vigore, parallelamente, gli ordines precedenti, è sicuramente disorientata e rischia di diventare disorientante. In questo caso la “sfiducia nella Riforma” arriva al punto di legittimare ufficialmente la sua contraddizione, ipocritamente concessa “solo nella misura in cui accetti i riti riformati”.

5. “Monstrum alterum”: una teoria della traduzione “senza destinatario”

Il secondo “mostro”, invece, qualche anno prima, era stato introdotto all’interno della logica della riforma liturgica. La storia del “grave compito” di tradurre i testi liturgici aveva conosciuto diverse fasi dopo il Concilio, ma con la Istruzione “Liturgiam authenticam” (2001) veniva imposto un principio assoluto di “traduzione letterale”, come garanzia della fedeltà al testo latino, che aveva reso di fatto impossibile ogni buona traduzione. Le Conferenze Episcopali si trovavano pressate da una tensione irresolubile: o obbedivano alla normativa della Istruzione, e traducevano in modo incomprensibile per il loro popolo; oppure traducevano in modo comprensibile, ma non vedevano approvate le traduzioni da parte della Congregazione romana. Dal 2001 il disagio era sempre più cresciuto, fino alle proteste esplicite che negli ultimi anni erano arrivate dagli episcopati tedeschi, francesi, statunitensi, canadesi, italiani… In realtà il “blocco istituzionale” dipendeva da un duplice blocco teorico, che pretendeva di garantire la fedeltà secondo due principi troppo drastici: si imponeva di tradurre letteralmente e di tradurre senza interpretare. Un latino idealizzato era soltanto lo schermo di una invincibile paura della riforma liturgica e della forma di Chiesa che da essa sarebbe scaturita. Ed è assai significativo che anche in questo “secondo mostro”, come nel “primo”, la logica portante fosse quella di “sottrarre autorità” agli episcopati locali, sia in rapporto all’uso del VO, sia in rapporto alla determinazione delle lingue di traduzione. Sia in un caso, come nell’altro, la idealizzazione nostalgica di una “liturgia ridotta al passato” diventava la facile ideologia in cui spesso si spacciava come “liturgia di sempre” quelli che erano diventati i vizi e le abitudini reazionarie di settori della Curia romana, facilmente esportabili con il sigillo del potere ecclesiastico.

6. Dopo il marzo 2013: una provvidenziale ripresa della continuità con il Concilio Vaticano II.

Con maggiore ampiezza ritengo ora di poter sondare il “cambio di passo” – per non dire di paradigma – che abbiamo ritrovato con la elezione di papa Francesco sul piano liturgico. Anche in questo caso vale la condizione favorevole di un Vescovo di Roma che è “nato ecclesialmente con il Concilio”. Non è certo un liturgista, né un – presunto o reale – esperto liturgista. Ma questa esperienza pratica e questa assenza di precomprensioni ideologiche gli ha permesso di dire e di fare alcune cose che sono rimaste come “pietre miliari” in questi 5 anni:

6.1. Il Concilio è irreversibile

più volte ha detto, esplicitamente, la irreversibilità del Concilio Vaticano II. In fondo i due “monstra” si possono frenare e combattere solo se è chiara e univoca la “direzione comune di marcia”. Finché l’autorità più alta non è chiara su questo – se indica il NO, ma anche il VO; se permette le traduzioni, ma solo se sono il “calco del latino – si genera inevitabilmente nell’unica Chiesa una divisione e una incomprensione sempre più grave. Levare ogni illusione a quei pochi – ma potenti – che sperano in una “reversibilità del Concilio liturgico” è stato finora un merito obiettivo del papato di Francesco.

6.2. Il “grande principio” riaffermato e sancito

Su questo punto, Francesco è intervenuto con un MP che assume un valore assai grande.

Il titolo del documento si rifa al “grande principio” affermato dal Concilio Vaticano II, ossia alla “comprensione dei testi liturgici” da parte del popolo di Dio, per assicurare la partecipazione all’azione celebrativa come “culmine e fonte” di tutta la azione della Chiesa.

Pur nella sua stringatezza di due sole paginette, che intervengono soltanto su un articolo del CJC, il documento papale non rinuncia ad uno spazio di “argomentazione teologica” nel quale troviamo affermati almeno quattro principi che non ascoltavamo con tanta chiarezza da quasi 50 anni:

– Il “grande principio” della esigenza di comprensione della preghiera liturgica da parte del popolo.

– Il principio per cui la “parola” è mistero, ma ciò non dipende dalla “incomprensione”, bensì dalla profondità inesauribile del suo significato.

– In terzo principio è la “competenza episcopale sulle traduzioni”, che viene ribadita con forza, come eredità conciliare e come esigenza intrinseca al rinnovamento della vita liturgica del popolo di Dio. La composizione tra esigenze degli Episcopati ed esigenze della Santa Sede trova, con la riforma del Codice, più facile e felice correlazione.

– Il quarto principio è una “teoria della traduzione”, bene espressa nella frase:

“fideliter communicandum est certo populo per eiusdem linguam id, quod Ecclesia alii populo per Latinam linguam communicare voluit.” ossia “bisogna comunicare ad un certo popolo nella sua lingua ciò che la Chiesa ha voluto comunicare ad un altro popolo con la lingua latina” 

Questa formulazione indica bene la importanza di tradurre non parola per parola, ma da cultura a cultura. Ciò che deve essere comunicato – la parola della salvezza – deve trovare espressione diversa quando entra in lingue e culture diverse. La corrispondenza tra lingue non è statica, ma dinamica. Irrigidire il “contenuto” in parole fisse conduce, irreparabilmente, a traduzioni incapaci di comunicare. La esigenza di un “glossario comune” non contraddice, ma giustifica questa scelta ordinaria.

Una delle conseguenze di questo documento è una preziosa riflessione sul tema della “fedeltà”. Che cosa significa, infatti, essere “fedeli al testo”? Essa comporta una duplice fedeltà: non solo al testo, ma anche al destinatario. Per garantire questa duplice fedeltà, non è sufficiente una competenza centrale, ma è decisiva anche una competenza locale. La logica del MP è quella di una “riconsiderazione della periferia”: per rendere pienamente il significato di un testo liturgico, originariamente latino, dobbiamo entrare nella lingua del popolo non solo con la testa, ma anche con il corpo. Questo possono farlo non anzitutto funzionari romani, ma Vescovi in loco. Una fedeltà solo letterale contraddice la complessità della struttura ecclesiale e della storia dei popoli. Il riferimento al Concilio Vaticano II è l’orizzonte in cui per essere fedeli alla tradizione occorre riconoscersi la possibilità di cambiare lingua. Possiamo vedere qui una ripresa del grande testo di Giovanni XXIII: la formulazione del rivestimento permette l’accesso alla sostanza della antica dottrina!

Un secondo aspetto, che dobbiamo considerare nel documento, è il superamento della illusione che si possa tradurre senza interpretare. Dietro alla distinzione tra “recognitio” e “confirmatio”, introdotta dal documento, sta, in fondo, la consapevolezza che non è possibile un atto di traduzione reale ed efficace, che non si cali nella particolare interpretazione che ogni lingua “diversa” offre del testo latino. Per passare dal latino alle lingue parlate occorre non semplicemente una trasposizione lessicale, ma sempre anche una interpretazione culturale, esistenziale, storica, sociale. Quella che sembra a prima vista una distinzione giuridica e fredda tra procedure, permette di far entrare la freschezza e la ricchezza delle vite dentro le parole della liturgia, poiché restituisce autorità alle Conferenze Episcopali locali. Una teologia della liturgia partecipata e una ecclesiologia di comunione sono il presupposto e l’effetto di questa importante riforma del codice. E la unità è garantita non dall’arretrare sul latino, ma dall’avanzare nella traduzione delle lingue del popolo.

Il MP sblocca la vita della Chiesa che celebra, ma rivela anche un grande desiderio di nuove motivazioni: tale desiderio dovrà essere colmato da una Nuova Istruzione, che sappia uscire dalle secche – non solo procedurali, ma argomentative – in cui ci aveva condotto Liturgiam Authenticam. Forse la stessa commissione che ha elaborato questo “provvedimento d’urgenza” potrà occuparsi di stendere una nuova Istruzione, che consideri accuratamente, serenamente e distesamente tutto lo sviluppo della Riforma già compiuto, nonché quello ricco e fecondo che resta ancora da compiere. Se MP ha riaperto un grande spazio ecclesiale di recezione della Riforma Liturgicatale spazio, tuttavia, appare nel nuovo documento come una “foto in negativo”. Ossia dischiude competenze che devono prendere forma, carne e sangue. E devono farlo localmente. Senza poter mai escludere che la lingua nazionale sia vissuta non solo come “lingua di arrivo”, ma anche come “lingua di partenza” dell’atto di culto.

Per intendere bene questo passaggio storico, torna assai utile la riflessione più generale proposta di recente da M. Neri, sulla rivista on-line “Settimananews”, sotto il titolo “Il respiro corto delle Chiese locali”, da cui traggo questa bella immagine. Essa affrontava con lucidità la difficoltà di una “imitazione di Francesco” che rischia sempre di approdare ad una retorica inefficace:

“Detta in una battuta: la retorica cerca di imitare l’ispirazione ariosa di Francesco; la pratica approda a un immaginario ecclesiale lontanissimo da essa. Ossia,il desiderio sincero è quello di ritradurre in loco la realtà di Chiesa che egli vuole inculcare nei nostri cuori, ma alla fine pressiamo il tutto in un corsetto che non ha nulla a che fare con essa. E, si badi bene, lo facciamo noi che di Francesco siamo convinti estimatori, mica quelli che si oppongono in tutti i modi al suo corso.”1

Questa osservazione vale, evidentemente, per tutto il complesso delle forme pastorali di una Diocesi o di un Chiesa nazionale. Ma si applica anche, in modo sorprendentemente efficace, anche alla recente storia della “recezione della Riforma Liturgica”. La quale, a partire daLiturgiam Authenticam ha ricevuto, dal centro, un messaggio forte e chiaro: il corsetto doveva essere così stretto che non si riusciva più neppure a respirare. Ora, a partire dal 1 ottobre 2017, con MP si è aperto esplicitamente uno spazio istituzionale per cambiare stile e prospettiva e muovere speditamente non solo “sulle orme del Concilio di Trento e del Vaticano I”, ma anzitutto su quelle del Concilio Vaticano II.

6.3. La Riforma è necessaria, ma non sufficiente

In conclusione possiamo identificare due linee di tentazione della recezione del Concilio Vaticano II e della sua “indole pastorale” sul piano della azione liturgica:

a) La prima tentazione è quella che si illude che la Riforma Liturgica non sia necessaria e che il regime rituale della Chiesa cattolica possa, legittimamente, continuare come se il Concilio non ci fosse stato. Forse oggi anche il Prefetto della Congregazione del Culto è sottoposto in modo drammatico a questa tentazione. Tutti coloro che pensano in questo modo cadono facilmente in un gravissimo errore di valutazione: scambiano la causa con l’effetto e ritengono che la “questione liturgica” sia iniziata con il Concilio Vaticano II o comunque con le “riforma” introdotte già negli anni 50. In realtà l’atto riformatore è la risposta ad una “crisi” che lucidamente Rosmini e Guéranger riconoscevano presente già prima del 1850!

b) Il secondo fronte di tentazione, che è reciproco al primo, ma molto più insidioso perché molto più diffuso, ritiene che la Riforma sia necessaria, ma pensa che sia anche “sufficiente”. Ossia che sia bastevole “difendere” i nuovi ordines perché la liturgia possa prosperare. Ora qui deve essere molto chiaro che la difesa dei nuoviordines, che sicuramente è un atto dovuto e necessario, non è affatto sufficiente per dare risposta alla “questione liturgica”. Solo una recezione capillare e di base della “forma rituale” introdotta dai NO potrà affrontare la crisi e risolverla.

Dunque, la soluzione della “questione liturgica”, alla quale il Concilio e la Riforma hanno tentato di dare risposta, può trovare la sua via solo con una riscoperta della liturgia come “fons” per la identità cristiana. Anche qui, il carattere di “fonte” significa che, per tutti i battezzati, l’atto di culto liturgico sta all’inizio della loro identità ecclesiale e spirituale. Come è evidente questo recupero della “actuosa participatio” deve svolgersi mediante la maturazione di una nuova “ars celebrandi”, che valorizzi ciò che la tradizione chiamava “rubriche” e che oggi devono essere riconosciute come “linguaggi non verbali”. Per dire così, con le parole belle di P. De Clerck, la cultura liturgica era passata “dal rosso al nero”, per scoprire il senso teologico della liturgia. Ora deve ritornare “dal nero al rosso”, per riscoprire la potenza dei linguaggi non verbali, su cui l’azione rituale non solo esprime, ma fa esperienza del mistero pasquale. Questa grande conversione ad una “razionalità più ampia” di quella semplicemente verbale è la via obbligata con cui la Chiesa cattolica riscopre la propria identità di popolo di Dio, di corpo di Cristo e di tempio dello Spirito Santo.

Il “grande principio” affermato dal Concilio Vaticano II, dunque, comporta una “intelligenza del mistero per ritus et preces” che implica non soltanto la “traduzione delle lingue”, ma anche la “iniziazione ai linguaggi non verbali”. Affermare la prima parte della “intelligenza” non significa affatto negare la seconda. Così, in modo plastico, la tradizione viene tradotta non solo se ci si rende finalmente conto che una “lingua africana” può dire cose che il latino “non riesce ad esprimere” – e quindi se avremo finalmente la coscienza che anche il latino, come tutte le lingue di Babele, ha punti ciechi e zone d’ombra, ma anche se un Papa, sotto la pressione di una nuova comprensione del Vangelo e della missione della Chiesa, compie il “gesto della lavanda dei piedi” della Messa in coena domini in un carcere, con piedi di donne, condannate da traibunali e non cristiane. Il gesto rituale, così risignificato, dice nella immediatezza di un linguaggio non verbale, una identità periferica della rivelazione fede e un volto non autoreferenziale della Chiesa e dei cristiani. Anche su questo aspetto del necessario sviluppo liturgico in molti casi Francesco appare come “il miglior teologo”.