La fede, i martiri e la fine del regime in Albania

La visita che papa Francesco ha compiuto a Tirana il 21 settembre 2014 continua a produrre i suoi benefici effetti anche a distanza di tempo. Quel giorno Mimmo Muolo era a Tirana, inviato da Avvenire a seguire il Papa, e ha visto di persona l’abbraccio tra il Pontefice e l’anziano sacerdote don Ernest Simoni ( Troshani), che insieme con la religiosa stimmatina suor Marije Kaleta, avevamo scelto come testimoni della fede per raccontare il terribile martirio della nostra Chiesa sotto la dittatura comunista. Don Ernest Simoni è una figura unica, una ricchezza immensa per la Chiesa di Albania, in particolare per la diocesi di Scutari-Pult: l’unico sacerdote testimone e vittima della persecuzione comunista ancora vivente. Alla sua persona sono legato anche da motivi personali.

È nato a Troshan (Lezhë) dove io sono stato parroco, quando venni mandato come missionario in Albania. In un certo senso, anche se l’epoca e il contesto erano diversi, ho ripercorso le sue orme, ho respirato il clima della sua primissima formazione umana e familiare, sono entrato nei luoghi e negli ambienti a lui più cari. Questo fatto lo avvicina ancor di più al mio cuore di vescovo e di pastore. In quel periodo ho avuto modo di conoscere e condividere la fraternità con altri due religiosi francescani, padre Leon Kabashi e padre Konrad Gjolaj (l’uno è stato in carcere, l’altro ai lavori forzati) e ho vissuto con loro quattro anni. Anche mettersi a servizio di questi fratelli, curarli e aiutarli è stata un’esperienza di grande intensità spirituale e umana. Posso dire, perciò, di aver vissuto, in un certo senso, con i martiri e questo per me è un dono di inestimabile valore di cui rendo grazie ogni giorno a Dio.

Oggi la situazione in Albania è profondamente cambiata. In occasione della visita del Papa c’è stata una grande collaborazione, anche a livello economico, con gli organi dello Stato, col sindaco di Tirana e la municipalità. Molti imprenditori e tanti semplici fedeli hanno offerto il proprio contributo. Ma don Ernesto ci aiuta a non dimenticare una pagina che, sebbene risalga a pochi decenni fa, rischia di cadere nell’oblio, so- prattutto sotto l’incalzare di un certo secolarismo che, viaggiando insieme allo sviluppo economico, comincia ad affacciarsi anche nella società albanese.

La memoria dei martiri, invece, è e deve restare la nostra vita, la linfa vivificante del corpo ecclesiale. Il sangue da essi versato è alimento per lo sviluppo della fede e della comunità. Per questo abbiamo accelerato i tempi di lavoro (per quanto dipende da noi) dell’iter del processo di beatificazione e canonizzazione di 38 martiri del periodo comunista. Nell’attesa di poterli iscrivere anche ufficialmente nel glorioso libro dei Santi e dei Beati abbiamo celebrato nel novembre del 2015 il 25° anniversario della prima Messa, che sancì, potremmo dire, l’inizio della fine del regime comunista.

Fu quello un momento speciale per la nostra Chiesa e per il popolo albanese: quel 4 novembre 1990, infatti, nel Cimitero cattolico di Scutari, don Simon Jubani con altri organizzatori, sacerdoti e laici, celebrò la santa Messa: c’erano solo poche centinaia di fedeli, perché molti ebbero paura di rappresaglie. Ma, visto che ne erano usciti indenni da quell’eroico gesto in quel giorno storico (in quanto dal 1967 non si celebrava in pubblico, perché vietato dal regime), la domenica successiva, l’11 novembre accorsero in 50 mila per partecipare all’Eucaristia. Su quell’esempio, il 16 novembre 1990 anche i musulmani si ripresero la Moschea cosiddetta “di Piombo”. La storia narrata in questo libro (la prigionia, i lavori forzati e quanto don Ernest ha fatto dopo la caduta del regime) ci aiuta a ricostruire tutto questo: il clima di quegli anni bui e la rinascita. Don Ernest, esemplare nella sua sofferente fedeltà a Gesù, è una guida sicura per capire ciò che è veramente accaduto.

Una testimonianza che, nell’Anno Santo della Misericordia, acquista un ulteriore profilo di attualità e importanza. Don Ernest ha perdonato i suoi aguzzini. Non conserva rancore. Prega per loro e dice che la misericordia del Padre celeste è così grande che spera possa comprendere anche chi, magari nel segreto della sua coscienza, si è pentito della violenza e dei soprusi compiuti in quegli anni. Questo, tra l’altro, è un atteggiamento che non ha avuto solo il protagonista di questo volume. Da nessuno dei sopravvissuti con i quali ho avuto la fortuna di vivere ho mai sentito una parola di odio contro i persecutori; mai hanno cercato la vendetta.

E anche noi, Conferenza episcopale albanese, quando abbiamo chiesto alle autorità statali l’accesso ai documenti segreti, abbiamo precisato che non eravamo alla ricerca dei nomi dei colpevoli, ma delle circostanze in cui il martirio era maturato; per cui quei nomi avrebbero potuto anche essere sostituti da degli omissis. Un giorno, mentre eravamo a tavola, a un frate che era stato in carcere, qualcuno un po’ provocatoriamente chiese: «Ma se quando andrai in paradiso, vi dovessi trovare Henver Hoxha, (il dittatore albanese), che faresti?». Lui, senza scomporsi, rispose: «Il paradiso è abbastanza grande per tutti: io a un angolo e lui all’altro!».

Avvenire