La Comunione sotto le due specie

Il 7 marzo 1965 con un unico Decreto della S. Congregazione dei Riti venne pubblicato il nuovo rito della concelebrazione e della comunione sotto le due specie. Per il Rito romano si trattava di una novità dopo una lunga storia non esente da aspetti polemici.

 

Cenni storici. In ossequio alle parole di Gesù, che dice: “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita” (Gv 6,53) , la comunione sotto le due specie è stata in uso costantemente fino ai nostri giorni nei riti orientali non latinizzati. In Occidente invece tale pratica ha avuto una storia travagliata. Nei primi secoli della Chiesa, l’uso della comunione sotto le due specie è stato universalmente praticato, ed era ritenuta addirittura parte essenziale della celebrazione; il fatto di astenersi dal calice, pertanto, era riprovato come un attentato all’unicità del mistero eucaristico. Papa Gelasio I (+ 496) si esprime in questi termini: “Sappiamo che alcuni, ricevuta soltanto la porzione del sacro corpo, si astengono dal sangue consacrato, guidati senza dubbio da chi sa quale superstizione. Costoro o ricevano per intero i sacramenti o se ne astengano per intero; la divisione di un solo ed identico mistero non può farsi senza grande sacrilegio”[1].

Nella seconda parte del secolo XII comincia a prevalere la comunione sotto la sola specie del pane. Le cause di questo cambiamento furono molteplici, alcune d’ordine pratico, altre d’ordine teologico. Tra i motivi d’ordine pratico, ricordiamo: le preoccupazioni igieniche, le difficoltà create dalle grandi assemblee, la prolissità del rito, ecc. Furono però i motivi d’ordine teologico quelli principali e decisivi: la teologia della presenza reale conobbe in questo periodo un grande sviluppo. Ciò produsse, tra altre conseguenze, un maggior rispetto verso il Ss.mo Sacramento che si concretizzò, per quello che riguarda il nostro tema, in una maggior attenzione ai pericoli di irriverenza e di versamento del vino consacrato che comporta la comunione al calice. Nel secolo XIII san Tommaso giustificherà in modo chiaro e definitivo la prassi di comunicarsi col solo pane con la cosiddetta legge della “concomitanza”, per cui il corpo e il sangue di Cristo sono veramente contenuti nella loro integrità sia sotto la specie del pane che sotto quella del vino[2]. Notiamo però che la comunione sotto le due specie perdurerà qui e là fino agli inizi del secolo XV.

Prima gli Orientali e poi alcune sette dell’Occidente attaccarono violentemente il nuovo uso di comunicare sotto la sola specie del pane, considerandolo contrario al Vangelo e alla tradizione ecclesiastica. Questo atteggiamento di contestazione, non soltanto disciplinare ma anche dottrinale, provocò l’intervento di due concili ecumenici: il concilio di Costanza, nella sessione XIII del 15 giugno 1415, proibì ai sacerdoti, sotto pena di scomunica, di dare ai fedeli la comunione sotto le due specie, uso che era stato reintrodotto recentemente tra i Boemi da Giacomo de Misa: “… i laici ricevano solo la specie del pane, rimanendo fermissima verità di fede, di cui non si deve dubitare, che il corpo e il sangue di Cristo sono veramente contenuti nella loro integrità sia sotto la specie del pane che sotto quella del vino”[3]. Più tardi, il concilio di Trento, nella sessione XXI del 16 luglio 1562, ribadisce i principi dottrinali che regolano la questione e, per quanto riguarda il problema disciplinare della concessione o meno della comunione al calice, lo lascia alla prudenza del Papa, il quale di fatto non lo concesse. Notiamo che Trento, oltre a citare il testo di Gv 6,53, da noi sopra ricordato, cita anche, tra altri testi,  Gv 6,51: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno…”[4].

 

La decisione del concilio Vaticano II e il suo significato. La Costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II afferma al n. 55: “… Fermi restando i principi dogmatici stabiliti dal concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può concedere sia ai chierici e religiosi sia ai laici, in casi da determinarsi dalla sede apostolica e secondo il giudizio del vescovo, come agli ordinati nella messa della loro sacra ordinazione, ai professi nella messa della loro professione religiosa, ai neofiti nella messa che segue il battesimo”.

Se il Vaticano II non fa riferimento ai valori teologici specifici della comunione sotto le due specie, i documenti posteriori al concilio hanno riempito questo vuoto. Così, l’ultimo di questi documenti in ordine di tempo, le Premesse al Messale Romano, nella sua ultima edizione dell’anno 2000, riassumono questa teologica al n. 281 (n. 240 delle edizioni anteriori): “La santa comunione esprime con maggior pienezza la sua forma di segno, se viene fatta sotto le due specie. Risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico, e si esprime più chiaramente la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel Sangue del Signore, ed è più intuitivo il rapporto tra il banchetto eucaristico e il convito escatologico nel regno del Padre”.

In primo luogo, quindi, nella comunione sotto le due specie vi è una maggiore autenticità e forza espressiva immediata del segno eucaristico come banchetto, cioè una maggior perfezione del segno. Non basta accontentarsi di un segno ‘valido’. E’ un postulato teologico e un’esigenza pastorale tendere verso la pienezza di manifestazione e di comprensione del segno sacramentale.

Il rito sacramentale, poi, acquista nella comunione sotto le due specie la struttura originale con la quale Cristo l’ha istituito. Ma non si tratta semplicemente di una fedeltà materiale alla istituzione del segno sacramentale; con la comunione sotto le due specie abbiamo la possibilità di mettere in evidenza una serie di valori biblici e teologici che illuminano il mistero eucaristico: l’eucaristia è un banchetto sacrificale (cf. 1Cor 10,16-22), in relazione con la tematica storico-simbolica dei banchetti biblici: la storia della salvezza è inquadrata dai due grandi banchetti iniziali dell’antica alleanza (pasqua e sacrificio del Sinai) e dal banchetto della nuova alleanza,  tutti orientati verso il banchetto escatologico della fine dei tempi. Il vino esprime il carattere festivo del banchetto biblico (cf. Sal 23,5; 104,15; Gdc 9,13; Pr 9,2). Il bere al calice del vino nella cena di Cristo rievoca inoltre la dimensione escatologica di questo calice (cf. Mt 26,27-29; Lc 22,17-18): il prossimo banchetto nel quale Cristo prenderà parte con i suoi discepoli sarà il banchetto escatologico che la cena anticipa. Infine il calice allude alla nuova ed eterna alleanza tra Dio e gli uomini, sigillata nel sangue di Cristo (cf. Eb 9,15-22).

La normativa che regola la comunione sotto le due specie è competenza del vescovo diocesano, il quale ha facoltà di permettere la comunione sotto le due specie addirittura sempre che ciò sembri opportuno al sacerdote celebrante; così il n. 283 delle Premesse all’ultima edizione del Messale Romano. Si tratta di un notevole ampliamento della normativa anteriore. Il modo previsto di assumere il vino consacrato può essere quello di bere direttamente al calice o anche per intenzione bagnando il pane nel vino del calice. La comunione con la cannuccia o il cucchiaino, modo adoperato in Oriente, non è entrato nell’uso delle nostre regioni.

 

Matias Augé