La carità pastorale nel bagaglio del sacerdote

Per una volta, in cattedra, si è seduto mons. Francesco Moraglia. Ha incontrato nel Palazzo Patriarcale, lo scorso 13 maggio, gli studenti del sesto anno della Teologia e ha parlato loro – come in una lezione – di un tema che gli sta particolarmente a cuore, la carità pastorale: un modo per preparare chi è ormai prossimo alla tappa del diaconato a un servizio pieno, senza riserve, verso le persone, gli ambienti, i ministeri che gli verranno affidati.

Il primo punto approfondito è stato di tipo metodologico: «Il sacerdote non può essere specialista solo in un campo», ha sottolineato il Patriarca; deve piuttosto essere disposto a impegnarsi in tutti gli ambiti richiesti dal suo ministero, «perché è a servizio della Chiesa». E’ naturale che i superiori cerchino di valorizzare i carismi delle persone, ma il punto di partenza deve essere «una disponibilità di base, aperta a 360 gradi nei servizi pastorali», ha ricordato mons. Moraglia: «Deve anzi essere un vostro punto d’onore offrire questa disponibilità». Corrisponde, in fondo, al senso stesso dell’essere “cattolico”, aperto cioè alla totalità, con un vero spirito di libertà. E si inserisce nell’orizzonte di quelle collaborazioni pastorali che si vogliono attuare nella nostra diocesi.

Il Patriarca si è soffermato poi sui contenuti della carità pastorale. “Carità” è il modo di amare che ha Gesù Cristo, applicato all’attività pastorale. E’ attraverso la carità pastorale che è possibile la reductio ad unum della persona, perché consente di cogliere l’unità sottesa nella varietà di cose che il prete è chiamato a compiere nelle sue giornate o nella sua vita presbiterale. Questo accade «quando tutti gli atti del ministero che un sacerdote è chiamato ad assolvere sono un atto d’amore verso il popolo che gli viene affidato». Non una carità generica, ma che si incarna in atti concreti, propri del ministero sacerdotale: «Compiendo i gesti in questo modo – ha sottolineato mons. Moraglia – uno si gioca la sua santità».

Anche la preghiera personale, in questo contesto, non è qualcosa di isolato e di slegato dal resto del servizio di un prete. «Non si può dire: è il momento della preghiera, lascio tutto il resto… Bisogna da un lato imparare a progettare i momenti della preghiera nella propria giornata», ha suggerito il Patriarca; «dall’altro imparare a vivere la preghiera negli atti del proprio ministero».

Tratto da GENTE VENETA, n.20/2015