LA BUONA NOTIZIA Il Vangelo della XV Domenica del tempo ordinario (Marco 6, 7-13)

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Osservatore Romano

È una scena di viaggio quella rappresentata da Marco, che si apre ricordando che tutto inizia con un evento particolare e straordinario: Gesù chiama e attira a sé i Dodici — numero in cui si racchiude la storia di un popolo — ma non ha alcuna intenzione di trattenerli, come invece farebbe un uomo alla ricerca di specchi. Anzi, egli fa sperimentare loro un forte desiderio di mettersi in cammino per incontrare altre persone a cui raccontare la buona notizia del vangelo. È sempre così quando c’è di mezzo lo Spirito: la vita si inquieta, si risveglia, si alza, si muove.

Non andranno soli, ma a due a due. Questa specificazione è già parte della mappa che dovrebbe orientare il percorso: il vangelo non poggia sull’eccezionalità degli individui ma sulla forza e sulla tenuta dei legami. Si nutre di comunione. Il primo annuncio è già un certo modo di camminare insieme.

Questo tessuto di relazioni è fragile e da custodire con cura, eppure si presenta qui come lo spazio di una potenza sugli spiriti impuri. Nel nostro linguaggio contemporaneo potremmo pensare anche alle nostre ferite e a tutto ciò che corrode e corrompe la nostra libertà di figlie e di figli di Dio: malattie, oppressioni, miserie, egoismi e violenze. Alla fine del brano si conferma ulteriormente l’intreccio tra l’annuncio e il miracolo della libertà restituita e delle storie risanate dalle tante infermità che colpiscono l’esistenza. Troppe volte questo nesso tra annuncio e liberazione dal male si allenta, fino a spezzarsi. Eppure Gesù era stato chiaro e aveva vissuto legando il vangelo alla guarigione e alla fioritura della vita.

Le esplicite raccomandazioni per il viaggio sono altrettanto orientanti: non c’è da portare via cibo, borse o denaro nella cintura. È una leggerezza che chiede fiducia negli incontri e controllo delle ansie per il domani, ma è anche una smentita delle scuse accampate per sottrarci al viaggio: non ci serve nulla di particolare per affrontarlo. Solo un bastone. È il bastone del pellegrino, che fa da appoggio al corpo stanco per il cammino e che forse consente un minimo di difesa, ma potremmo anche riconoscerlo come il segno di un’umanità intelligente che dalla natura fa uscire la cultura. Secondo un bel testo del filosofo Maurizio Ferraris (L’imbecillità è una cosa seria), “imbecille” è appunto chi non ha bastone, cioè chi resta sul piano della natura, non ha una penna per discutere la storia, subisce la tecnica e, non da ultimo, fatica a fare i conti con il tempo perché — come nell’enigma della Sfinge — noi siamo coloro che alla fine della vita camminano con tre gambe.

Per questo viaggio occorre imparare a percorrere lunghe strade ma anche a stare sulle soglie delle case. Non si può sapere prima quali saranno le amiche e gli amici. Nessun noi/voi di partenza: si bussa al momento e si chiede accoglienza. E se qualche porta dovesse rimanere chiusa o essere sbattuta in faccia? Come testimonianza, ricordarsi di scuotere la polvere dai sandali e non le persone.