La biblioteca della misericordia… Perdonare l’imperdonabile

di Giuseppe Stinca | 23 maggio 2016 – vinonuovo.it
Jaques Deridda sui problemi e le aporie di ciò che chiamiamo “dono e perdono”.

Erede dei contributi della Arendt e di Levinas, Jaques Derrida si assume l’ardito, folle, compito di riflettere sui «problemi e sulle aporie», sugli «gli abissi» e sul «fondo senza fondo della cosa stessa chiamata dono o perdono» – e che possiede nella sua stessa radice lessicale il malinteso, la compromissione e la corruzione.

Dono e perdono, infatti, hanno un rapporto essenziale col tempo: il primo riguarda il presente, il secondo il passato. Essi, tuttavia, non sono mai presenti come esperienza: «si ha sempre da farsi perdonare quando si tratta del dono», perché non si dona mai abbastanza, non si offre o si accoglie mai abbastanza, la responsabilità è sempre in ritardo rispetto allo sfolgorio della trascendenza del Volto d’Altri. Derrida, a tal proposito, propone di distinguere tra imprescrittibile e imperdonabile. L’imprescrittibile non è l’imperdonabile: il diritto regola l’imprescrittibile, ma il perdono è estraneo al diritto. Entrambi questi concetti hanno di certo a che fare con un’ineluttabilità del passato. Il male è avvenuto, appartiene a un passato irriducibile. Ma il perdono è – forse segretamente – una rivolta contro la temporalizzazione:

Senza questo privilegio ostinato del passato nella costituzione della temporalizzazione, non vi è problematica originale del perdono. Il perdono, la perdonità, è il tempo, l’essere del tempo comporta un passato irrecusabile e immodificabile.

Per la costituzione del perdono poi, oltre al passato, è necessario che un fatto sia un misfatto, il che implica un autore responsabile e una vittima. Ma chi ne è il soggetto? Chi perdona o chi domanda perdono? E a chi? «Chi ne ha il diritto o il potere?». In realtà, si perdona sempre qualcosa a qualcuno che in un certo modo non si confonde mai totalmente con la colpa passata, e nemmeno col passato in generale. Una differenza, quella tra il chi e il cosa, che costituisce un’ossessione irrisolvibile che trova espressione nell’«impossibilità di una vera e propria esperienza appropriata, appropriabile del “perdono”», perché, quando il colpevole chiede perdono, si sta discostando dalla colpa che ha commesso, non è più lo stesso soggetto, per cui la vittima perdonerà un pentito ma non il colpevole in quanto colpevole.

Se infatti concediamo il perdono a condizione che l’altro confessi la propria colpa, se ne dissoci, allora il nostro perdono comincia a farsi contaminare da un calcolo che lo corrompe. Derrida ritiene, quindi, che il perdono possa andare al di là di ogni economia identificatoria nella quale il colpevole si pente, cambia, si identifica con colui che concede il perdono. Questa etica iperbolica richiederebbe il perdono laddove esso non è domandato:

Il perdono prende senso, trova la sua possibilità di perdono solo laddove esso è chiamato a fare l’im-possibile e a perdonare l’imperdonabile.

Questa etica iperbolica rientra certamente nel solco della tradizione religiosa, ma nello stesso tempo è incompatibile con essa: «come se il cuore stesso di questa tradizione comportasse un’incongruenza, una potenza virtuale di implosione o di autodecostruzione, una potenza di impossibile». Nel solco della tradizione, infatti, si dice che il perdono ha sempre un senso all’interno di uno sfondo di salvezza, di riconciliazione, redenzione, espiazione, persino di sacrificio. In questa ottica, il crimine infinito della Shoà è impunibile con una punizione proporzionale. Che il perdono, allora, nasca proprio alla fine della storia del perdono, della storia come perdono? Bisogna quindi sempre domandarsi se «la sua possibilità non sia chiamata proprio, e soltanto, laddove esso appare, davanti all’im-perdonabile, impossibile, e possibile solamente alle prese con l’im-possibile». Il vero perdono non potrebbe che perdonare l’inespiabile – la Shoà.

D’altra parte, è a volte impossibile che il perdono possa essere concesso dalla vittima, in un faccia a faccia, per cui, nell’ottica di Derrida, il perdono prevede che vi sia sempre l’ingresso di quel terzo che tuttavia il perdono stesso dovrebbe escludere. Ma «è possibile domandare o concedere il perdono a un altro che non sia l’altro singolare?». La vittima è la sola a poter intendere pienamente la richiesta e a poter concedere o rifiutare il perdono. Un perdono chiesto in nome di una collettività – una Chiesa – a un insieme di vittime anonime non avrebbe senso. «Questa solitudine singolare, addirittura quasi segreta del perdono» costituisce un’aporia, un im-possibile aporia. Una ferita insanabile. E tuttavia, è proprio in questa ferita che forse bisogna muoversi. Perché se non ha senso domandare perdono a un insieme anonimo è anche vero che la molteplicità, il terzo, e il testimone sono da sempre presenti sulla scena del perdono, in quanto nel faccia a faccia è già presente un terzo, un’esigenza di giustizia da cui nasce il diritto:

Il faccia a faccia è interrotto e insieme reso possibile dal terzo. Allora, è la giustizia stessa che mi precipita nella scena del perdono. Devo domandare perdono – per essere giusto.

Forse per questo si domanda perdono a Dio:

Non perché egli solo sarebbe capace di perdono, ma perché, in assenza della singolarità di una vittima, o in assenza del criminale o del peccatore, Dio è il solo nome, il nome del nome si una singolarità assoluta e nominabile come tale. Del sostituto assoluto. Del testimone assoluto, del testimone sopravvissuto assoluto.

Il dono, infatti, ha in sé l’ambiguità dell’infiltrazione della coscienza narcisistica per la quale «si prende sempre donando», se non addirittura ci si identifica con la vittima in un movimento narcisistico di appropriazione di quest’ultima:

Si deve, quindi, a priori domandare perdono per il dono stesso, si deve aver da farsi perdonare il dono, la sovranità o il desiderio di sovranità che ossessiona sempre il dono. Ci si dovrebbe persino far perdonare il perdono, che rischia anch’esso di comportare l’equivoco irriducibile di un’affermazione di sovranità. Il perdono come l’impossibile verità dell’impossibile dono. Prima del dono, il perdono.

Con l’ingresso del terzo «devo domandare perdono per (il fatto) di essere giusto. Perché è ingiusto essere giusto. Tradisco sempre qualcuno per essere giusto”. E’ un movimento senza fine. Una co-origine di dono e perdono, di “scusa” e “grazie” in un intrattenimento – in un ‘tenere tra’ che non è un ‘trattenere’ – nel quale i soggetti si liberano nella Grazia dal peso narcisistico della propria consistenza. Soggetti che possono chiedere scusa per l’egoismo intrinseco al proprio essere, e vivere nella richiesta di essere accettati dagli altri e nella gratitudine di tale accettazione:

Quando si dice “grazie”, si dice forse “grazie”, io ti ringrazio per ciò che tu mi doni e che io riconosco con riconoscenza? Oppure “grazie”, io ti domando il grazie…, io ti domando il perdono per ciò che tu mi doni, io ti rendo grazie per la grazia, per il perdono che io ti domando ancora di donarmi. In fondo, voi non saprete mai quello che io vi dico quando vi dico, per concludere, come al principio, perdono, grazie. Al principio ci sarà stata la parola “perdono”, “grazie”.

Proprio come ha detto il Papa: «permesso, scusa, grazie»…