LA BIBBIA NELL’ANNO DELLA FEDE: Cosa dice la Scrittura. «La fede è fondamento delle cose…»

Così prosegue la proposizione posta nel titolo: «…che si sperano e prova di quelle che non si vedono » (Eb 11,1b). La bella definizione introduce il più ampio elogio della fede nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Per questo nella lettera apostolica Porta fidei, Benedetto XVI ha scelto il leitmotiv che cadenza il capitolo undicesimo della Lettera agli Ebrei per introdurre l’Anno della fede. La catena ininterrotta dell’espressione “per fede…”, che attraversa la storia della salvezza – da Abele sino ai martiri del periodo maccabaico – prosegue nella vita di Maria, degli apostoli, dei discepoli e di ogni credente del XXI secolo: «Per fede viviamo anche noi: per il riconoscimento vivo del Signore Gesù, presente nella nostra esistenza e nella storia» (PF 13). La storia della salvezza è un moto perpetuo o un costante pellegrinaggio della fede di uomini e donne che percorrono il loro esodo per raggiungere «colui che si trova all’origine e a compimento della fede» (Eb 12,2): Gesù Cristo, il sommo ed eterno sacerdote, divenuto tale per la fedeltà a Dio e la compassione verso gli uomini. Sono sufficienti questi accenni nella Lettera agli Ebrei e nel resto della Sacra Scrittura per rendersi conto che tale cognizione della fede è ben diversa dalla nostra e che, mediante la frequentazione della parola di Dio e la catechesi dovremmo assumere una nuova visione della fede. Cerchiamo allora di delineare come la fede che attraversa nell’Antico e nel Nuovo Testamento interpella il nostro modo di viverla e d’intenderla.

Santuario di San Magno a Castelmagno (Cn), 1.761 m, meta di fede dall'epoca romana (foto CENSI).

Santuario di San Magno a Castelmagno (Cn), 1.761 m, meta di fede dall’epoca romana (foto CENSI).

La fede della Scrittura e noi

  1. Per quanti provengono dal patrimonio culturale occidentale la fede corrisponde alla convinzione personale e alla persuasione che scaturisce dall’adesione ad alcuni contenuti. Nel greco profano il termine pístis equivale principalmente a “convinzione” e a “persuasione”. Chi invece proviene dall’ambiente semitico sposta la percezione della fede verso le dinamiche che nascono dall’incontro con l’altro. Modello e padre della fede è Abramo che «credette a Dio e gli fu accreditato per la giustizia» (Gen 15,6). Prima di Abramo la Sacra Scrittura non accenna alla fede perché questa nasce in occasione della prima alleanza nella storia della salvezza.
  2. Consequenziale è il diverso codice della fede: se per un occidentale la fede si relaziona a un insieme di cognizioni, per un orientale si radica in eventi che la manifestano e la rendono credibile. Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei illustra la fede mediante le scansioni della storia della salvezza, cadenzata dalla testimonianza sino all’effusione del sangue. Una fede storica – nel senso che trova riscontri nelle vicende umane – è quanto accompagna le coordinate della fede ebraico-cristiana. Senza il suo radicamento storico, la fede rischia di non trovare testimoni che l’hanno vissuta nel passato prossimo e remoto.
  3. La terza disparità concerne l’ambito della fede. Per un occidentale, la fede è anzitutto soggettiva, nel senso che ognuno la esprime in dipendenza delle proprie convinzioni. Al contrario per chi si abitua a frequentare la Sacra Scrittura è l’incontro con l’altro che si trova al centro della fede. Per questo la fede non è mai soltanto “mia” che non sia, nello stesso tempo, “nostra” e “vostra” dei credenti. In questo tratto la fede veicola un imprescindibile orizzonte ecclesiale ed è liberata da forme di arbitrio e di soggettivismo improduttive, tipiche di alcune nazioni europee, compresa l’Italia.
  4. Una quarta dissonanza sulla fede concerne la sua origine: a una fede che nasce dalla volontà e dall’adesione del soggetto fa da contraltare una fede che nasce dall’ascolto e dalla relazione con la parola di Dio. Su questo versante è esemplare il percorso della fede delineato da Paolo nella Lettera ai Romani: «La fede nasce dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo » (Rm 10,17). Il contesto dell’affermazione spiega bene che “la parola di Cristo” non è altro che la parola di Dio, contenuta nella Sacra Scrittura: una Parola letta, creduta e vissuta mediante la relazione con Cristo.
  5. Che il paradigma della fede nella Sacra Scrittura sia diverso dal nostro risalta anche per il rapporto con i suoi contenuti. Spesso riteniamo che sia sufficiente la conoscenza della verità perché si pervenga alla risposta umana della fede. In realtà perché s’innesti l’adesione della fede è insufficiente la conoscenza della verità, pur salvaguardandone l’importanza giacché è inconcepibile una fede nella menzogna. Tuttavia è necessaria la prossimità della verità e la sua capacità di arricchire quanti la cercano. Sotto questa più ampia cognizione si trova la fede intesa come “fedeltà”, “affidabilità” e “credibilità”: è in gioco la ‘emunah e l’amen che declina in modo inscindibile verità e fedeltà. Per questo Gesù è non soltanto “la Verità”, ma anche “la Via e la Vita” (cf Gv 14,6). Egli è la Verità che conduce, in quanto Via, alla fede;dona, in quanto Vita, la fede. Tuttavia perché la Verità raggiunga la condizione concreta di ogni persona, è necessario il dono dello Spirito che conduce alla Verità nella sua interezza (cf Gv 16,13).
  6. Un’ultima distonia merita di essere segnalata poiché presenta notevoli ricadute dal versante pastorale. In contrasto con una fede intesa come semplice risposta dell’uomo a Dio, si delinea una che è e resta dono e grazia di Dio: dall’inizio alla fine. Forse è la barriera più massiccia e difficile da abbattere, ma che nella storia del cristianesimo ha procurato molti fraintendimenti. Prima e più che una virtù, la fede è una condizione che nasce dalla grazia; e come tale ha bisogno di restare, anche quando è convinta ed è vista come risposta del cuore umano.

Casal di Principe (Ce), 19.3.09: manifestazione per commemorare don Peppino Diana, ucciso dalla camorra il 19.3.1994 (foto PISCHETOLA).

Dalla professione alla confessione della fede

Se la fede si verifica dalle opere e non soltanto dalla sua espressione verbale, come sottolinea Giacomo (cf 2,14-26), le conseguenze di una fede così ripensata riguardano soprattutto la sua relazione con l’obbedienza, il suo prodursi nell’amore e la sua permanenza nella speranza. Anzitutto dall’ascolto della parola di Dio e/o di Cristo la fede si trasforma in obbedienza qualificata dalla fede (cf Rm 16,26). E anche su questo versante è opportuno precisare che l’obbedienza della fede non è mai soltanto di uno dei partner coinvolti, ma è sempre di entrambi: dell’uomo disponibile all’ascolto della Parola fedele di Dio e di questi in costante ricerca di coloro che ama. Tuttavia per cogliere questa dimensione bilaterale dell’ascolto obbediente è necessario abbandonare una visione statica e astratta di Dio e porsi in sintonia con il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. A sua volta, Paolo spiega bene che la fede autentica non è disancorata dall’amore, poiché da una parte «la fede è operante nell’amore» (cf Gal 5,6) e, dall’altra, l’amore «tutto crede» (cf 1Cor 13,7), non nel senso credulone dell’espressione, bensì perché è, di fatto, inconcepibile amare senza una reciproca fiducia. Quando la fiducia viene a mancare, l’amore si dilegua! Infine naturale è la capacità della fede di approdare nella speranza: sia per quella contingente e quotidiana, sia verso quella finale. Chi ha incontrato il Signore, all’inizio dell’esperienza della fede, non può che desiderare nuovamente d’incontrarlo per restare sempre con lui: «Secondo la mia ardente attesa e speranza che in nulla resterò deluso » (Fil 1,20). Questo è il banco di prova più decisivo della fede e che, purtroppo, dimentichiamo a più livelli: dall’omiletica alla catechesi.

La bimillenaria storia del cristianesimo rischia di affievolire e spesso demitizza l’orizzonte escatologico della fede, relegandola nel presente della vita personale e comunitaria. Una delle invocazioni più brevi ed essenziali della fede – maranatha – nel duplice significato di «il Signore viene» (cf 1Cor 16,22) e «vieni Signore Gesù» (cf Ap 22,20) lo ricorda ogniqualvolta partecipiamo alla frazione del pane o al pasto del Signore. Non è casuale che l’ultima icona dell’Apocalisse di Giovanni si concentri sull’invocazione che lo Spirito e la sposa (la Chiesa) rivolgono al Risorto: «Vieni Signore Gesù». Nuovamente è lo Spirito che trasforma i credenti in testimoni e la loro professione in confessione della fede. Se la professione può essere comunicata senza coinvolgimento personale, soltanto la confessione della fede è tale poiché coinvolge la bocca e il cuore (cf Rm 10,9-10), la parola e la mente, la contemplazione e l’azione. L’elogio della fede da cui siamo partiti, nella breve riflessione, inizia con l’accenno alle cose che si sperano e si chiude con la plastica metafora della corsa agonistica negli stadi: «Anche noi, dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti» (Eb 12,1). Fondata sulla storia e sul sostegno dei testimoni del passato e del presente, la fede non ha tempo per forme di nostalgia, ma corre verso la mèta dell’incontro con il Signore, sospinta com’è dalla sua fedeltà.

Antonio Pitta
ordinario di Nuovo Testamento
presso la Pontificia università
lateranense, Roma

vita pastorale luglio 2013