Lʼanno che verrà. Angeli

Lui ha tre mesi. Sulle mie ginocchia, sta buono solo se lo faccio saltare. Questa la cantavano a me: «O cavallo cavallone, porta il sacco al tuo padrone, ma se non glielo vuoi portare…» – e qui trattengo il fiato: lui spalanca gli occhi e aspetta – «allora, buttalo nel canale!», esclamo, e tenendo il bambino ben saldo fingo di lasciarlo cadere all’ingiù.

E Martino ride. Gli occhi – chissà se cambieranno di colore – sono due pezzi di mare, e così trasparenti che ci cado dentro. A tre mesi, davvero i bambini sembrano angeli. Me n’ero scordata: erano vent’anni, che non ne avevo uno fra le braccia.

Davanti a quegli occhi sto come di fronte a un mistero. Perché, a tre mesi, sono felici di un nulla, di un gioco da niente; e da dove vengono, per essere così limpidi? Ma, soprattutto: cosa ci accade, poi, e perché quasi tutti diventiamo col tempo cinici, o opachi, quando non egoisti o cattivi?

«Se non ritornerete come bambini…». Tornare ad avere quello sguardo: soltanto per una grazia, credo, da domandare. La più grande, e tanto dimenticata, ora che ci affanniamo, impauriti, a proteggere la salute del nostro corpo, quasi fosse il sommo ultimo bene.

Ma Martino vuole giocare.

Obbediente riprendo: «O cavallo cavallone…». Riemergo dal pozzo blu dei suoi occhi segnata da un’inesauribile nostalgia.

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